Non sono i dubbi che generano la nostra cattiva condotta: è la nostra cattiva condotta che genera i dubbi – Ecco la giusta definizione di un buon Cattolico: colui che prende sul serio la salvezza della propria anima – Se i nostri pensieri sono malvagi, malvage saranno le nostre azioni. Il problema degli atti impuri è, fondamentalmente, quello dei pensieri impuri – Meno un uomo pensa a se stesso, più pensa a Dio – Quanto meno pensiamo a Dio, tanto meno tempo avremo per Lui –
L’arcivescovo Fulton Sheen, eminente apologeta, teologo e filosofo cattolico, è stato definito da molti un profeta dei nostri tempi. Aveva una notevole capacità di vedere le sfumature di un mondo che cambia. In uno dei suoi libri scritto nel 1938, “The Cross and the Crisis”, ha fatto una diagnosi accurata della causa della crisi nella Chiesa Cattolica e nel mondo, e ha descritto i cambiamenti inquietanti che stanno avvenendo oggi sotto i nostri occhi. Cosa aveva previsto l’arcivescovo Sheen?
Ecco le sue parole:
-La più grande vittoria di Gesù-
Tuttavia, la secolarizzazione della cultura e l’atteggiamento ostile dello Stato moderno non devono essere motivo di disperazione. La Chiesa prospera meglio quando il presente non è rassicurante e il futuro è dipinto a tinte nere.
La vittoria del mondo non è mai sembrata così imminente come quando Gesù fu inchiodato alla Croce, eppure fu un giorno di sconfitta per il mondo. Cristo non è mai stato così simile al Re e al Conquistatore del mondo, come nel giorno in cui la corona di spine è stata posta sul capo del Re e al vincitore è stato dato un trono sulla Croce.
Eppure fu proprio in quel giorno cupo, che noi chiamiamo Venerdì Santo, che Gesù ottenne la vittoria più grande.
-La logica di Dio-
Lo stesso vale per la Chiesa. È debole quando trae forza dal potere del mondo, ed è forte quando appare debole agli occhi degli uomini. Questo perché, in realtà, non è il potere della ricchezza, della tecnologia o della politica a portare alla vittoria, ma le forze spirituali, e soprattutto lo spirito del sacrificio compiuto sul Golgota, che, dopo la vergogna del Venerdì Santo, risorge a Pasqua.
La Chiesa risorge continuamente, come un fiore in primavera. Più e più volte viene considerata morta e lasciata nella tomba, eppure si risveglia sempre a nuova vita. Rinasce in ogni epoca per salvarla.
Sembra che in questo momento storico la Chiesa stia vivendo il Venerdì Santo, e che Cristo la immerga nel calice del Suo dolore prima in un Paese e poi in un altro. Tutto questo, però, serve a raffinarla e a prepararla per il raccolto di Dio, che arriverà presto.
-La Pentecoste che dura-
Più specificamente, questo rinnovamento avverrà attraverso la rinascita dell’ideale della Pentecoste. Attraverso l’opera dello Spirito Santo, il mondo si è rinnovato nel primo secolo e si rinnoverà allo stesso modo nel ventesimo secolo. Ma qual è l’ideale della Pentecoste? Ebbene, è un riconoscimento del primato della spiritualità, realizzato dall’ispirazione dello Spirito Santo riversato abbondantemente nelle anime umane e dall’infusione della grazia della Cresima. La fedeltà all’ideale della Pentecoste significa che l’azione umana è preceduta dalla contemplazione; che la vita umana non è guidata dall’avidità ma dall’amore; che chi ama non ha bisogno di perdere il suo spirito.
L’ideale della Pentecoste è la convinzione che il miglioramento della società sia, per così dire, un sottoprodotto del Cristianesimo. La parola importante è “sottoprodotto”. Infatti, il benessere economico e politico del mondo non è l’obiettivo primario, ma solo secondario, dell’azione della Chiesa. L’obiettivo primario è quello di far sì che le persone cerchino il Regno di Dio e la Sua Giustizia, e tutte le altre cose saranno date loro in aggiunta.
-Dove ci manderà lo Spirito?-
L’indebolimento dello Spirito di Pentecoste porta sempre a disastri sociali e politici. Nell’antichità, il profeta Geremia avvertì i suoi contemporanei: “Pace, pace… intanto non c’è pace”.
Tra il 1399 e il 1509 c’erano solo otto case religiose in Inghilterra. Chiunque comprendesse l’importanza del ruolo della spiritualità nella vita di una nazione, sapeva che prima o poi sarebbe apparsa una frattura. E così fu. L’unità religiosa dell’Inghilterra è andata in frantumi e finora non è stata ripristinata.
L’ideale della Pentecoste, come è stato recentemente notato, si è manifestato in modi diversi in diversi periodi della storia. Perché diverse e misteriose sono le vie di Dio. Nei primi tempi della Chiesa, l’espressione di questo ideale era l’ascetismo. Uomini e donne si ritiravano dalla vita nella corrotta civiltà pagana del loro tempo e andavano nel deserto.
Sentivano che non c’era spazio per i compromessi nell’atmosfera della secolarizzazione pagana. Perciò ritenevano che, per vivere una vita cristiana e rimanere fedeli all’ispirazione dello Spirito Santo, dovessero isolarsi dal mondo.
-La spiritualità permeava la vita sociale-
Nel primo periodo di massimo splendore del Medioevo, l’ideale della Pentecoste si manifestò nella vita monastica. In una società che non aveva più un atteggiamento ostile nei confronti delle questioni spirituali, ed era quindi pronta ad essere impregnata di idee spirituali, nacquero grandi organismi collettivi come gli ordini francescani e domenicani.
A quell’epoca, la spiritualità permeava la vita sociale, politica ed economica più fortemente che in qualsiasi altro periodo della storia umana. Più tardi, al tempo della Riforma Protestante, lo Spirito di Pentecoste assunse una nuova forma. Non era più slegato da una società corrotta, come al tempo dei padri del deserto; né era l’anima della civiltà, come nel Medioevo; ora era chiamato a lottare per le verità della Pentecoste, che erano state respinte nell’ora del rilassamento morale.
A quei tempi, l’ideale della Pentecoste si manifestava non solo nell’attività di singoli difensori della fede, come Jacques Bossuet, ma anche in comunità come la Compagnia di Gesù, o Gesuiti, che conducevano una crociata contro l’errore armati della spada della verità.
-Non moriremo-
Viviamo in un’epoca di nuova crisi globale. Quale forma assumerà questa volta l’azione dello Spirito di Pentecoste? Ci chiederà di allontanarci dal mondo, susciterà nuovi ordini monastici, formerà nuovi sostenitori della verità? Non sappiamo cosa Dio abbia preparato per noi. Sappiamo solo che non periremo….
(Fulton J. Sheen, da “The Cross and the Crisis” 1938)
P.S. la traduzione è stata eseguita in modo amatoriale
Nella sua essenza, l’Umanesimo del nostro tempo, non è altro che la rinascita del Pelagianesimo; è l’eresia dell’atto e dell’intelletto dell’uomo, l’affermazione che l’umanità può ascendere alle divine altezze senza l’aiuto divino, e che in sé e di per sé è sufficiente al perfezionamento delle sue capacità e delle sue forze. In breve, è la dichiarazione che la mente umana non ha bisogno della fede e che la forza umana non ha bisogno della grazia. (…)
-L’Umanesimo è troppo inumano-
Siamo giunti così alla seconda critica dell’Umanesimo: esso è troppo inumano. Carica la povera natura umana di un fardello troppo pesante. In virtù dell’anima immortale, la natura umana ha in sé qualcosa d’infinito; ha aspirazioni e desideri infiniti per la verità, la bellezza, l’amore e la vita; rifiuta di essere pacificata dai piaceri del tempo e dello spazio, quasi fosse continuamente ansiosa di «far dondolare il mondo come un gioiello appeso al polso», e di salire sui «remoti bastioni dell’Eternità», dove non esiste se non l’infinita Perfezione della Vita di Dio.
L’Umanista ammetterà il carattere infinito di tali aspirazioni, ed in questo consiste il suo errore. Invitare l’uomo a soddisfare questa passiva capacità d’infinito ricorrendo al finito; bere le acque del tempo per appagare la sete di eternità; nutrirsi di un cibo corruttibile per soddisfare la fame del Pane Eterno di Vita; riposare sull’umano quando si aspira al divino – tutto ciò vuol dire intralciare la natura umana in tutte le sue prerogative. E ciò non è umano, anche se lo si definisce «Umanesimo».
Sembra uno strano paradosso, ma è pura verità il dire che l’uomo diventa più umano solo quando diventa più divino, perché da tutta l’eternità egli è stato destinato a conformarsi all’immagine del Figlio di Dio. Quindi, ogni forma di Umanesimo che neghi la necessità della grazia e tenti di perfezionare l’uomo senza di essa, vorrebbe che l’uomo si sviluppasse senza avere un ambiente in cui svilupparsi. Rimanere sul livello puramente umano e conservare l’ideale del «decorum» vuol dire permettere all’uomo di espandersi orizzontalmente, in direzione dell’umano, ma non verticalmente, in direzione del divino.
L’umanesimo permette di espandere l’uomo sul piano della natura, ma non di elevarlo sul piano della grazia, e l’elevazione è molto più importante dell’espansione. Negate l’ordine della grazia, il regno della Paternità di Dio, e quale ambiente rimane all’uomo che gli permetta di crescere, se non quello della povera umanità simile a lui? Le piante vivono grazie ad un ambiente esterno a loro, un ambiente col quale la loro struttura si trova in armonia. Poiché l’anima è spirituale, l’uomo ha bisogno non solo dell’ambiente dell’umanità, che appartiene al regno del corpo, ma anche di quello dello spirito, che appartiene alla sua anima, ed è solo entrando in armonia con questo grande ambiente che raggiunge il fine della sua creazione.
Ecco perché l’Umanesimo, privato del super-umano, non è Umanesimo, bensì Naturalismo. Per sua natura, l’uomo non è un idolo, ma un idolatra, e farlo ripiegare su se stesso vuol dire condannarlo all’egoismo che è la morte.
(Fulton J. Sheen, da “Verità e Menzogne: una critica profetica del pensiero moderno” edizioni Mimep)
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Un nuovo tipo d’uomo si va moltiplicando nel mondo moderno, e caso mai qualche lettore riconosca qui sotto il proprio ritratto, auguriamoci che si soffermi, che rifletta e che operi un mutamento di sé. L’uomo nuovo è l’uomo di massa, che non apprezza più la propria personalità individuale, ma che cerca di sommergersi nella collettività o nella folla.
L’uomo di massa si può riconoscere dai tratti seguenti:
È privo di originalità di giudizio; non legge altro che quel che si trova nei quotidiani o nei giornali illustrati, o eventualmente in qualche romanzo. Può tutt’al più, su un argomento non peregrino, esprimere un parere diverso da quello degli altri, non mai enunciare un nuovo principio o proporre una nuova soluzione.
Detesta la tranquillità, la meditazione, il silenzio e tutto ciò che possa dargli l’agio di penetrare nelle profondità della propria anima. Ha bisogno della folla, del frastuono, della radio (l’ascolti oppure no).
L’evasione o fuga da se stesso è per lui una necessità. Assume regolarmente dosi alte di alcool, di cocktails, di libri gialli, di cinema, per colmare il vuoto delle ore. A differenza del genio, che ama la concentrazione, egli ricerca la dispersione, e in particolar modo il sesso, affinché l’eccitazione del momento possa fugare la considerazione dei problemi dell’esistenza.
Cerca piuttosto di essere influenzato che d’influenzare, è sensibile alla propaganda, alle sollecitazioni della pubblicità, e ha generalmente un articolista favorito che s’incarica di pensare per lui.
Ritiene che ogni istinto debba essere soddisfatto, indipendentemente dal fatto che sia, o meno, conforme alla sana ragione. Non può capire la rinuncia o l’autodisciplina; identifica l’autoespressione con la libertà, e non è padrone di sé in nessuno di quelli che sono i punti vitali.
Le sue opinioni sul giusto e sull’ingiusto cambiano come la banderuola che segna la direzione del vento; sostiene posizioni che non sono altro se non un succedersi di contraddizioni: un mese traccia degli itinerari mentali e il mese dopo li abolisce. Non approda in nessun luogo, ma è sicuro di essere «sulla buona via». Non ha il senso della gratitudine verso il passato né il senso della responsabilità verso l’avvenire. Nulla gli sta a cuore eccetto le distrazioni, cosicché la vita si frammenta in un assurdo schema d’istanti successivi di cui nessuno s’integra agli altri per acquistare un senso compiuto.
Identifica il denaro con il piacere, e cerca quindi di procurarsi in abbondanza il primo per avere molto del secondo. Ma, per lui, il denaro dev’essere ottenuto col minore sforzo possibile. L’ego è il centro di tutto, e qualsiasi cosa dev’essere collegata all’ego per mezzo del denaro.
Per rompere la propria solitudine ricorre a una pseudo-comunione con gli altri, mediante i locali notturni, i ricevimenti e le distrazioni collettive. Ma sempre se ne ritorna sentendosi più solo di prima, e infine si persuade con Sartre che «l’inferno sono gli altri».
Essendo un uomo di massa completamente standardizzato, odia la superiorità negli altri, sia essa reale o immaginaria. Ama gli scandali perché sembrano dare la prova che gli altri non sono migliori di lui. Detesta la religione per il semplice motivo che, negandola, crede di poter continuare a vivere come vive, senza rimorsi di coscienza.
Così sommerso nella mentalità della massa, potrebbe essere contrassegnato tanto da un numero quanto da un nome. Perfino l’autorità da lui invocata è anonima. Si configura sempre nella terza persona plurale : «Dicono», «fanno», «portano», e via dicendo. L’anonimato diventa una protezione contro l’assunzione di responsabilità. Nelle grandi città l’uomo di massa si sente più libero perché è meno conosciuto, ma nello stesso tempo detesta questa condizione in quanto cancella la sua distinzione personale.
Sono questi i dieci contrassegni dell’uomo di massa […]. Ma il suo caso non è senza speranza: gli basterebbe interiorizzarsi.
La sola ragione per cui vuole sperdersi nella folla è che non può sopportare la propria miseria interiore. Ne consegue che un tal uomo deve staccarsi dalle masse e mettersi faccia a faccia con se stesso. La fuga è codardia ed evasione, specialmente la fuga nell’anonimato. Bisogna essere coraggiosi per guardarsi nello specchio della propria anima al fine di scorgervi il deturpamento cagionato dalla cattiva condotta.
Non è lapalissiano il dire che gli uomini devono essere uomini, e non atomi sperduti nella massa. Una volta che l’uomo abbia potuto discernere le ferite ch’egli stesso si è inferte, la prima iniziativa che prenderà sarà quella di mostrarle al Medico Divino per essere curato. Fu per simili, travagliati uomini di massa che Cristo pronunciò il suo appello: «Venite a Me voi tutti che siete affaticati e oppressi, Io vi ristorerò».
Un verso di una canzone popolare dice: «Sono in paradiso quando sono accanto a te». Per capire il paradiso, benché sia nell’eternità, dobbiamo iniziare parlando del tempo. Il paradiso è al di fuori del tempo, ma dobbiamo servirci del tempo per raggiungerlo. Sembra quasi un paradosso. Nessuno di noi vuole davvero una specie di esistenza senza fine su questa terra. Se fosse possibile per noi vivere 400 anni con qualche nuovo genere di vitamine, pensate che le ingeriremmo tutti? Giungerebbe di sicuro un momento in cui vorremmo morire.
Siete mai stati in un posto dove eravate assolutamente sicuri di voler passare ogni giorno della vostra vita? Non è poi così probabile. La mera estensione del tempo per molti di noi diventerebbe una maledizione piuttosto che una benedizione. Avete mai notato che nei momenti più felici l’eternità sembrava discendere nella vostra anima? Tutte le grandi ispirazioni sono senza tempo, dandoci qualche assaggio del Cielo. A Mozart, una volta, venne chiesto quando ricevesse l’ispirazione per la sua grande musica. Disse che vedeva tutto in una volta: prima c’erano grande luce e calore, quindi la successione delle note. Quando preparo una conversazione o un programma o inizio a scrivere un libro, giunge un momento in cui dall’inizio si intravede il punto d’arrivo. L’eternità è nella mente e il tempo è alla fine della penna, ma le parole non escono abbastanza velocemente. A Jean-Baptiste Henri Lacordaire, il grande predicatore francese, una volta fu chiesto se avesse completato i suoi celebri sermoni da tenere nella cattedrale di Notre Dame. Rispose: «Sì, li ho finiti. Tutto ciò che mi resta da fare adesso è scriverli».
Ciascuno fa esperienza di qualche debole accenno di immortalità, come ha scritto Wordsworth, in ciò che avviene dopo la morte. Ci sono così tanti uomini che tentano di immunizzarsi dal pensiero dell’eternità. Indossano degli impermeabili a prova di Dio per non lasciarsi bagnare dalle gocce della sua grazia. Mettono a tacere l’eterno. Mi chiedo se qualcuno lo abbia mai descritto meglio di T.S. Eliot in “Gli uomini che si allontanarono da Dio” (nei Cori da «La Rocca», 3). È un poema su coloro che intasano il proprio tempo di ogni cosa senza mai concedere un momento allo straniero che ogni giorno bussa alle porte della loro anima, lo straniero che turba il loro sonno, poiché di notte fanno sogni di immortalità. Questo straniero è colui che porta l’eternità nella vostra anima. Benché viviamo nel tempo, è l’unica cosa che rende impossibile la felicità. Vivendo nel tempo non potete combinare i vostri piaceri e gioie. Essendo nel tempo, non potete marciare con Napoleone e con Cesare insieme. Non potete sedervi a prendere il tè con Orazio, Dante e Alexander Pope. Poiché siete nel tempo, non potete fare contemporaneamente sport estivi e invernali. Il tempo esige che godiate dei vostri piaceri in momenti distinti. Il tempo non solo ve li offre, ma ve li toglie anche. A meno che non esaminiate le vostre esperienze e intuizioni psicologiche, scoprirete che i vostri momenti più felici sono quelli in cui non vi accorgete più del passare del tempo.
Quando siete a scuola o in ufficio guardate l’orologio perché non vi divertite. Forse quando assistete a un concerto o vi godete una conversazione con un amico, magari state leggendo, ed esclamate: «Come passa il tempo!». Meno ve ne accorgete, più godete. È un’immagine di ciò che dev’essere il Cielo, fuori dal tempo, quando potete possedere tutte le gioie e ciascuna nello stesso pieno istante. Dovete servirvi del tempo per raggiungere il Cielo.
Spesso pensiamo al Cielo come se fosse “là fuori” e ne delineiamo ogni genere di immagini irreali. Poiché pensiamo al paradiso e all’inferno come qualcosa che ci accade alla fine del tempo, tendiamo a posticiparli. Di fatto, il Cielo non è là fuori: è qui. L’inferno non è laggiù: può essere dentro un’anima. Non è come morire e solo dopo andare in paradiso o all’inferno: siete già in paradiso o all’inferno. Ho incontrato gente che era all’inferno e sono certo che sia capitato anche a voi.
Ricordo di aver assistito un uomo in ospedale, chiedendogli di far pace con Dio. Disse: «Immagino che secondo lei io stia andando all’inferno». «No», gli dissi, «non intendo questo». «Bene», disse lui, «io voglio andare all’inferno!». Gli ho detto: «Non ho mai incontrato un uomo che volesse andare all’inferno, dunque penso che mi siederò qui e la vedrò andare». Non intendevo lasciar passare il tempo senza fare nulla, ma ero assolutamente certo che in pochi minuti avrebbe potuto cambiare prospettiva; così, mi sedetti da solo con lui per venti minuti. Lo vedevo andare incontro a una sorta di lotta interiore. Mi disse: «Lei crede davvero che ci sia un inferno?». Gli dissi: «Nel suo intimo si sente infelice? Ha paura? Prova spavento e angoscia? Le si presentano davanti tutte le cattive azioni della sua vita come fantasmi?». Di lì a poco si riconciliò con Dio.
Ho visto persone con il paradiso dentro di loro. Se volete mai vedere il paradiso in un bambino, guardatelo nel giorno della prima Comunione. Se volete vedere quanto amore c’è in paradiso, guardate una sposa e uno sposo all’altare nel giorno della Messa nuziale. Il Cielo è lì perché c’è l’amore. Ho visto il paradiso in una suora missionaria che si donava tra i lebbrosi. La bellezza di una persona simile non era esteriore, era una sorta di amore imprigionato all’interno, che voleva rompere le barriere della carne per manifestarsi al di fuori. Il paradiso è qui, come l’inferno può essere in alcune anime. Il paradiso è vicinissimo a noi perché ha a che fare con una buona vita come la ghianda che diventa quercia.
Chi non ha il paradiso nel cuore adesso non andrà in paradiso, e chi ha l’inferno nel cuore andrà all’inferno quando morirà. Il paradiso ha a che fare con una vita buona e virtuosa nello stesso modo in cui la conoscenza ha a che fare con lo studio: l’una segue necessariamente l’altro. L’inferno deriva da una vita malvagia così come la corruzione deriva dalla morte: l’una segue necessariamente l’altra. Il paradiso non è lontano; inizia qui, ma non finisce qui. Ne abbiamo pallidi scorci qua e là.
Se rimandiamo il pensiero del Cielo fino al momento della morte, saremo molto simili agli israeliti che vagavano nel deserto. I poveri ebrei erano a circa undici giorni dalla Terra Promessa. Ci volevano solo tre settimane per viaggiare dall’Egitto alla Terra Promessa, ma, per via della loro disobbedienza, delle loro mancanze e deviazioni e ribellioni contro Mosè, impiegarono quarant’anni, che rappresentano il cammino di molte delle nostre vite: facciamo progressi e poi ricadiamo indietro. Grazie al cielo abbiamo un Signore misericordioso che ci perdona settanta volte sette! È necessario il tempo per conquistare il paradiso, ma non è il lasso di tempo in sé a portarci lì: è il modo in cui viviamo e moriamo.
(Fulton J. Sheen da “Perché credere? 50 risposte sul senso della vita. Vol. 2” edizioni Ares)
Si completano in questo secondo volume le cinquanta lezioni dell’arcivescovo Fulton Sheen sulle buone ragioni della fede. Con il consueto stile rapido e comunicativo, l’autore ci accompagna in un’analisi approfondita sull’Eucaristia, sulla questione della grazia e del peccato, sui sacramenti, sulla preghiera e sui comandamenti, sul mondo ultraterreno (i novissimi), soffermandosi anche sulla specificità dei ruoli maschile e femminile all’interno della comunità e nell’economia della salvezza.
Un’opera che monsignor Robert Barron, vescovo di Winona-Rochester e lui stesso noto predicatore, definisce nella prefazione del primo volume: «quanto di più vicino a una Summa Sheeniana». In queste 50 lezioni, come del resto in tutta la sua opera, emergono lo stile brillante e la cultura (non solo teologica) del grande evangelizzatore statunitense, capace di parlare al cuore delle persone di ogni estrazione sociale e allo stesso tempo di esporre in modo chiaro le ragioni della fede.
Barron sottolinea a proposito «il talento dell’autore nel trovare analogie, paragoni e immagini per esporre i misteri cristiani. […] Non conosco nessuno, nella grande tradizione dell’omiletica cristiana, della catechesi o della teologia, in grado di praticare il metodo analogico con maggiore capacità di Fulton Sheen».
IL VOLUME È DISPONIBILE SUL SITO DELLA CASA EDITRICE ARES. QUI SOTTO IL LINK: 👇
Tutto ciò che abbiamo discusso si può riepilogare nella differenza tra legge e amore. Nella vita cristiana non siamo governati esclusivamente dalla legge, dobbiamo andare oltre. Non accontentiamoci semplicemente di osservare i comandamenti, ma cerchiamo di essere vicini al Signore. È difficile? È possibile?
Ricordate, un giorno un giovane andò dal Signore e gli chiese che cosa dovesse fare per essere salvato e il Signore gli disse di osservare i comandamenti. Ne menzionò cinque o sei, come non rubare, non commettere adulterio e così via. Il giovane disse: «Ho osservato tutte queste cose sin dalla giovinezza». Il Signore allora aggiunse: «Se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi, dallo ai poveri […] e vieni! Seguimi!» (Mt 19, 21). Il giovane se ne andò triste, perché possedeva molto. Questo turbò gli apostoli. Ognuno deve vendere tutto per seguire il Signore. Dissero: «Allora, chi può essere salvato?» (Mt 19, 25). Il Signore rispose che non è possibile agli uomini con le loro forze, ma è possibile a Dio. Tutto è possibile a Dio; noi abbiamo la sua grazia.
Il cristianesimo è difficile da un punto di vista mondano, ma dona intima pace e gioia a coloro che obbediscono alla legge dell’amore del Signore. Quando comprendiamo in pieno il senso della legge, sentiamo il Signore dirci: «Dammi tutto, tutto di te. Dammi tutto il tuo essere». È una perdita? No, perché Lui ha detto: «Ti darò un nuovo io, ti darò Me stesso, la mia volontà diventerà tua». Cerchiamo di rimanere ciò che siamo e al tempo stesso di custodire la pace per quanto possibile. Vogliamo essere “buoni”. Vogliamo che i nostri cuori e le nostre menti vadano insieme; forse questo viene dopo il denaro, il piacere o il prestigio sociale e al contempo vogliamo comportarci con onestà, con purezza e osservando i comandamenti.
Il Signore ha detto: «Un cardo non può produrre un fico e un campo che contiene solo erba non può produrre grano» (Mt 7, 16-20). Se voglio produrre grano, il cambiamento deve avvenire in profondità. Devo lasciarmi arare e seppellire. Il Signore ha detto anche: «Se vuoi essere perfetto, […] vieni! Seguimi!» (Mt 19, 21) e ancora: «Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5, 48). Intende che dobbiamo lasciarci lavorare a fondo. È difficile, ma desiderarlo è ancora più difficile. Quando scendiamo fino in fondo, di che cosa abbiamo paura? Abbiamo paura di dare le nostre dita a Dio per timore che prenda tutta la mano. Nei nostri cuori coltiviamo dei piccoli giardini segreti, ma il frutto non è suo, è nostro. Lo nascondiamo a Lui, talvolta è un peccato di poco conto, un vizio o egoismo, qualsiasi cosa che ci toglie la piena gioia di essere cristiani. È difficile per un uovo trasformarsi in uccello, ma è ancora più difficile che possa volare rimanendo uovo. Noi ora siamo come uova e non possiamo continuare a essere soltanto buone uova. Un buon uovo è quello che si schiude.
Il Signore insiste su un certo tipo di morte; dobbiamo rinnovarla nelle nostre vite proprio com’è accaduto nella sua. Egli è il modello. A Nicodemo e a noi ha detto ripetutamente che per vivere ancora dobbiamo morire all’uomo vecchio (Gn 3, 1-21). Qualcuno spera che il pericolo sia superato perché Lui è un Salvatore gentile che riprende i peccatori ostinati senza far domande? Costui dovrebbe leggere il passo in cui Lui dice che al rigore della legge di Dio non sarà sottratto un solo iota (cfr Mt 5, 17). La grazia non è a buon mercato. Costa quanto la vita del Signore. Potete pensare a qualcosa di più costoso di ciò che un uomo deve pagare sulla croce? Se vogliamo la pace, dobbiamo pagarne il prezzo. Senza morire alla vita inferiore, non c’è pace, ma solo timore, e viviamo una sorta di mezza esistenza. Il Signore ha detto: «Chi vuol fare la sua volontà, riconoscerà se questa dottrina viene da Dio» (Gv 7, 17). Intende che una delle ragioni per cui ci sono agnostici e scettici è perché non osservano la legge di Dio. Se noi conosciamo la sua volontà, comprenderemo la sua dottrina.
Magari abbiamo insistito troppo sulla conoscenza della dottrina cristiana e non abbastanza sul fare. Il Signore ha detto: «Se farete la mia volontà, conoscerete la mia dottrina» (Gv 8, 31). Solo chi fa seriamente la sua volontà e mette in gioco la propria vita altrettanto seriamente su di essa giungerà a conoscere Cristo e tutto ciò che la sua Redenzione porta con sé. Il Signore si fa conoscere solo dagli avventurieri, non dai codardi. Il Signore è un disturbatore. Sembra irritarvi e vi spinge a una sorta di crocifissione. Potete essere dei mondani accomodanti, comodamente seduti nella vostra visione del mondo, ma, se prendete Cristo sul serio, dovrete rinunciare a quella comodità, perché è una falsa pace. La prima venuta di Cristo nelle nostre vite è quella di uno che ci viene a sconvolgere, ma una volta che ci diamo a Lui diventa il nostro difensore. Prima di avere Cristo, il nostro cuore ci accusa, siamo infelici delle mezze misure. Dopo esserci dati a Lui e alla sua legge d’amore, i nostri cuori sono in pace. Il suo atteggiamento cambia completamente una volta che noi abbiamo cambiato il nostro.
Ecco un altro modo di sottolineare la differenza tra i comandamenti e l’amore: «I comandamenti mi limitano soltanto». Li vediamo come ostacoli e impedimenti nella vita. Coloro che vivono per i comandamenti si chiedono: «Fin dove posso spingermi?», «Qual è il limite?», «Quanto posso accostarmi all’abisso senza cadervi?», «È peccato mortale?». Non è questa la via dell’amore né della pace. È il vecchio Adamo in me che parla in questo modo sui comandamenti. Quando mi limito a obbedire alle regole, non sono mai integro come persona. Ecco lo stato psicologico di chi si limita a obbedire ai comandamenti, senza il pieno coinvolgimento del cuore. Quando amo, sono una persona intera, perché l’amore coinvolge tutto il mio essere; di conseguenza non posso essere comandato. Fino a questo punto abbiamo detto che la dottrina morale cristiana è una dedizione totale a Cristo. Ci fissiamo sulla sua mente, pensiamo i suoi pensieri, amiamo ciò che Lui ama, e chiediamo a noi stessi qualsiasi cosa compiamo: «Questa cosa gli è gradita?».
C’è un altro risvolto dell’amore di Dio: l’amore del prossimo. Le due leggi vanno insieme. Amare il prossimo è farsi carico del suo peccato. Alcuni anni fa ricordo di aver incontrato una donna sconvolta perché suo figlio era stato arrestato. Penso che fosse il suo quarto arresto per delinquenza, furto e omicidio. Lei se ne vergognava e aveva il cuore spezzato. Mi chiedevo tra me: «Perché prova tanta vergogna?». Allora mi vennero in mente le parole del profeta Isaia riguardo al Signore e potevo dire di lei: «Si è caricata delle sue sofferenze, si è addossata i suoi dolori e il castigo che gli dà salvezza si è abbattuto su di lei» (cfr Is 53, 4-5). Solo dalle piaghe di lei, lui sarebbe stato guarito. Questa buona madre aveva pochissimi peccati nella sua vita, di certo non gravi, eppure l’amore l’ha fatta sentire peccatrice per amore di lui. Immediatamente si è chiarito il mistero: l’amore che una donna può provare per suo figlio la rende una sola cosa con lui. Il peccato, la disgrazia e la vergogna di lui diventano di lei, ed è la realtà più vicina su questa terra all’amore di Dio.
Dobbiamo vedere che ogni nostro peccato, disgrazia e vergogna diventano Suoi, che li ha portati nel suo stesso corpo sull’albero della croce. Ecco perché il perdono ha un prezzo e la grazia e il perdono non sono a buon mercato. Non dobbiamo pensare di essere devoti vivendo individualmente una vita santa ben separata dal prossimo, dal mondo e dall’umanità sofferente. Ecco qual era il problema di Simone il fariseo. La donna peccatrice venuta in casa che versava l’unguento sui piedi del Signore lasciò Simone scandalizzato. Non voleva entrare in contatto con una peccatrice, tutto preoccupato della propria osservanza della Legge e forse delle proprie colpe avvolte in una falsa pace. Il Signore disse a Simone: «Vedi questa donna? L’hai capita? I suoi peccati sono parte dei peccati del mondo». Egli stava prendendo i peccati di lei e l’unzione era una preparazione alla sua crocifissione e morte (cfr Lc 7, 36-50). Lei fu perdonata molto, e il perdono ha un prezzo terribile. Il perdono è l’amore in azione e l’amore significa portare il peccato. Il perdono si realizza solo portando il peccato, e questo esige una croce per Dio e per noi!
Il Signore ha detto: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, […] prenda la sua croce e mi segua» (Mc 8, 34). Il significato della croce è l’amore che si fa carico del peccato dell’amato per via dell’unione con lui. Noi possiamo conoscere il portatore, Cristo, solo se portiamo i peccati degli altri. Siamo redenti per essere redentori e non veniamo salvati finché Dio non ci rende salvatori. Un cristiano deve andare con il Signore nel Getsemani e passare da lì al Calvario, completando nel proprio corpo ciò che manca alle sofferenze di Cristo per amore del suo Corpo che è la Chiesa. Non possiamo lavarcene le mani come Pilato dicendo: «Non sono responsabile del sangue e delle sofferenze del mondo» (cfr Mt 27, 24).
La Chiesa è una chiesa, cioè un corpo di persone che portano il peccato, che amano con l’amore di Dio sparso nei loro cuori. Possono perdonare perché sono state perdonate. Coloro che sono stati amati diventano amanti. Se la Chiesa di Cristo non fosse unita dall’amore a tutta l’umanità, allora il peccato del mondo sarebbe il peccato della Chiesa, la disgrazia del mondo sarebbe la disgrazia della Chiesa, la vergogna del mondo sarebbe la vergogna della Chiesa, la miseria del mondo sarebbe la miseria della Chiesa; anzi non ci sarebbe affatto la Chiesa. La Chiesa non è e non può essere un fine in sé stessa, ma un mezzo di salvezza per il mondo, non solo per la nostra propria santificazione. Non possiamo salvarci da soli. Nel “Padre nostro”, non nel “Padre mio”, imploriamo il “nostro pane quotidiano”, non il “mio pane quotidiano”. La Chiesa è strumento di salvezza per l’umanità. Non è un rifugio pacifico, ma un esercito che si prepara alla guerra. Noi cerchiamo sicurezza, ma solo nel sacrificio, ecco il segno della Chiesa e il vessillo della croce.
Se il peccato dei nostri moderni bassifondi e la degradazione che ne deriva; se il peccato delle nostre case sovraffollate e la bruttezza e il vizio che portano; se il peccato di chi è senza cuore e senza scrupoli si staglia contro la squallida e degradante miseria dell’Africa, dell’Asia e dell’America latina; se il peccato della truffa e della disonestà defrauda i poveri; se il peccato della prostituzione e dell’omicidio di donne e bambini per malattia; e se il peccato della guerra che gli altri hanno covato; se tutto non gravasse come un peso sulla Chiesa e su di noi, membra della Chiesa, e se non ne sentissimo dolore, non saremmo membra degne della Chiesa. Abbiamo perso la nostra vocazione. La moralità cristiana non è solo osservare i comandamenti; è amore, dedizione totale, e prendere su di sé i peccati degli altri. Ecco la legge nuova: amare Dio e amare il prossimo.
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“VERITÀ E MENZOGNE: UNA CRITICA PROFETICA DEL PENSIERO MODERNO” (Edizioni Mimep).
ESTRATTO DAL CAPITOLO 12: “L’ANIMA E LE CONTORSIONI DEL BEHAVIORISMO”
Un’altra cosa che il Behaviorismo o Comportamentismo non sa spiegare è l’umorismo, e la sua deliziosa conseguenza, il riso. La risata è prodotta dalla vista dei rapporti inattesi fra due giudizi, e poiché il rapporto si può percepire soltanto da parte di una forza spirituale, ne consegue che può ridere soltanto l’uomo dotato di un principio spirituale.
Prendete, per esempio, questa storiella. Un visitatore disse un giorno a una bambina di sei anni: «Che cosa farai, mia cara bambina, quando sarai grande come la mamma?». «Mi metterò a dieta», rispose la bambina. Ammetto che la storiella non sia molto divertente, ma supponendo che abbiate avuto la bontà di sorridere, lasciate che me ne serva per dimostrare la mia tesi. La storiella contiene sedici parole pronunciate. Ora supponete che nel momento in cui la bambina formulava la sua risposta vi fossero nella stanza un cane, un gatto ed un canarino. Il cane, il gatto ed il canarino avrebbero ricevuto esattamente la stessa misura di stimolo uditorio: avrebbero udito i suoni prodotti da sedici parole. Orbene, perché mai il cane, il gatto ed il canarino non hanno sorriso nell’udire quelle parole, mentre il visitatore che aveva rivolto alla bambina la domanda sorrise senz’altro, sebbene la mamma della bambina si trovò quasi certamente in imbarazzo?
Per la ragione che, da quelle sedici parole, il visitatore ha ricevuto non sedici ma diciassette reazioni. In altre parole, egli ha ricavato da quelle parole qualcosa che esse non avevano. Nella parola «grande», il visitatore ha colto un doppio significato, cioè quello dell’età e della taglia della mamma. Ma per cogliere contemporaneamente i due significati, condizione indispensabile per apprezzare qualsiasi gioco di parole, si deve essere anche spirituali, non soltanto materiali. Se una scatola è piena di sale, non può essere nello stesso momento piena anche di pepe. Se la mente è solo piena di materia, vale a dire afferra soltanto la sensazione uditoria della parola «grande», non può considerare la stessa parola in nessun altro senso capace di suscitare il riso.
Ecco dove falliscono tutti i tentativi di spiegazione della vita in senso meccanicistico e comportamentistico: essi non sanno dare una ragione per quella meravigliosa pazzia che è la risata. Nulla, nella creazione inferiore all’uomo, ha mai prodotto alcunché lontanamente rassomigliante al riso. Non s’è mai visto che qualche animale incominci a sorridere, e quindi l’uomo scoppi in una risata. Quando si giunge a considerare l’uomo, si trova in lui qualcosa di assolutamente nuovo. Il pony non ha mai sorriso, ed il cavallo da tiro non ha mai riso fragorosamente. Non è vero che le antichissime iene si limitassero a sogghignare, e quelle che vennero in seguito incominciassero a ridere: tutte avevano semplicemente la bocca aperta. La piccola valle non ha incominciato a fare un sorrisetto mentre la grande vallata si sbellicava dalle risate. Non ci s’imbatte nel sorriso se non quando si arriva all’uomo, e la sola ragione per cui lo si incontra nell’uomo è che l’uomo possiede un’anima capace di elevarsi al di sopra della materia e di vedere i rapporti esistenti fra le cose, specialmente quelli buffi che aiutano a rendere la vita divertente. C’è più verità che semplice poesia nel dire che l’uomo «scoppia in una risata», perché è uno scoppio positivo che lo eleva al di sopra di tutto ciò che è inferiore a lui nella creazione. È lo scoppio che lo separa dal passato e dalla materia: è il principio dello spirito.
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“VERITÀ E MENZOGNE: UNA CRITICA PROFETICA DEL PENSIERO MODERNO” (Edizioni Mimep).
ESTRATTO DAL CAPITOLO 7: “UN APPELLO ALL’INTOLLERANZA”
Si dice che l’umanità sia colpita dal morbo dell’intolleranza. In realtà è vero il contrario. Essa è affetta da un eccesso di tolleranza, la tolleranza su ciò che è giusto e su ciò che non lo è, sulla verità e sull’errore, sulla virtù e sul vizio, sul Cristo e sul caos. Nel nostro Paese non imperversano tanto i bigotti, quanto gli spiriti tolleranti. L’uomo che sa prendere una decisione secondo un ordine preciso, così come sa rifarsi il letto, viene definito bigotto e colui che non sa organizzare i propri pensieri, più di quanto saprebbe compiere l’impresa di recuperare il tempo perduto, viene definito liberale e tollerante. Il bigotto è colui che rifiuta di accettare una ragione per qualsiasi cosa e l’uomo tollerante è colui che accetta qualsiasi cosa per una ragione – a patto che non sia una ragione valida. È vero che si esige dai più la precisione, l’esattezza, la finalità, ma solo nella valutazione scientifica, non nella logica. Il collasso che ha prodotto tale innaturale tolleranza non è morale, bensì mentale. La prova della nostra affermazione è triplice: la tendenza a determinare le conclusioni non in forza di argomenti, ma di parole; la disposizione ad accettare qualunque autorità nell’ambito della religione; infine, la passione rispetto alla novità.
Voltaire si vantava per il fatto che se fosse riuscito a scoprire soltanto dieci parole negative ogni giorno sul Cristianesimo, avrebbe potuto schiacciarne «l’infamia». Riuscì a trovarne non solo dieci, ma una dozzina al giorno, però non scoprì mai alcun argomento valido, perciò le parole andarono per la solita via che seguono le parole vane e alla fine, l’oggetto contro cui le scagliava, il Cristianesimo, sopravvisse. Oggi nessuno presenta nemmeno il più meschino argomento che tenti di dimostrare che Dio non esiste, ma sono a legioni coloro che credono di aver sigillato i Cieli dopo aver usato la parola «antropomorfismo». Questa parola è solo un esempio di quell’intero catalogo di nomi che servono come scusa a coloro che sono troppo pigri per pensare. Un attimo di riflessione gli direbbe che non ci si può liberare di Dio chiamandolo «antropomorfo», più di quanto si riesca a liberarsi dal mal di gola col nominare gli «streptococchi». In quanto all’uso della parola «antropomorfismo», non vedo che in teologia sia più giustificato di quanto sia nella fisica l’uso del termine «organismo», che i fisici moderni amano tanto praticare. Certi aggettivi come «reazionaria» o «medioevale» vengono applicati alla Chiesa Cattolica e sono usati con la stessa mancanza di rispetto che un uomo potrebbe portare nel deridere l’età di una donna.
-Falsa tolleranza-
La falsa tolleranza non è soltanto tradita da questa tendenza a sostituire le parole agli argomenti, ma anche dalla prontezza da parte di molti ad accettare come autorità in ogni campo del sapere qualsiasi individuo che sia diventato famoso in un campo particolare. Il concetto su cui poggia la religione trattata dal punto di vista giornalistico è che un uomo, per il fatto di essere bravo a fabbricare automobili, sarà altrettanto bravo a trattare i rapporti che intercorrono fra Buddismo e Cristianesimo e che un professore, per essere un’autorità nell’interpretazione dei fenomeni atomici, è necessariamente altrettanto autorevole nell’interpretazione del matrimonio. Allo stesso modo un uomo, il quale s’intende di illuminazione, potrà gettare sempre luce sull’argomento dell’immortalità o addirittura spegnere le luci sull’immortalità stessa. Vi è un limite alle nostre abilità: nessun pittore, abilissimo nel lavorare con la mano destra, potrà, volendo seguire il suggerimento di un cronista, dipingere altrettanto bene con quella sinistra. La scienza della religione ha il diritto di essere ascoltata scientificamente attraverso i suoi rappresentanti qualificati per parlare, esattamente come la fisica e l’astronomia hanno il diritto di essere espresse per bocca dei loro legittimi rappresentanti. La religione è una vera scienza, nonostante che qualcuno la voglia ridurre a semplice sentimento.
La religione possiede i suoi principi, sia naturali che rivelati, ancora più precisi di quelli matematici nella loro logica. Un falso concetto di tolleranza, purtroppo, ha oscurato questo fatto agli occhi di molte persone, che nei più piccoli particolari della vita sono tanto intolleranti mentre nelle loro relazioni con Dio sono molto tolleranti. Nelle questioni ordinarie della vita, queste persone si guarderebbero bene dal chiamare un seguace di Scientology quando hanno bisogno di riparare una finestra, non chiamerebbero mai un oculista perché si è rotta la cruna di un ago, non chiamerebbero il fiorista dopo essersi lacerati la pianta del piede, né andrebbero dal falegname a farsi sistemare le unghie. Non contatterebbero l’agente delle imposte per fargli estrarre una monetina inghiottita per sbaglio dal bambino. Si rifiuterebbero di prestare attenzione ad un sostenitore dell’Unicef, che pone in discussione l’autenticità di un presunto quadro di Rembrandt, così come ad un taglialegna, che si arroga il diritto di risolvere una spinosa questione legale. Tuttavia, nel campo di quell’argomento di somma importanza che è la religione, dal quale dipendono i nostri destini eterni, intorno alla questione di somma importanza sui rapporti dell’uomo con il mondo e con Dio, si dimostrano disposti ad ascoltare chiunque si autodefinisca un profeta. Perciò i nostri giornali sono pieni di articoli per gente straordinariamente tollerante e di «larghe vedute», nei quali ognuno, dal campione di pugilato Jack Dempsey al capo-cuoco del Ritz Carlton Hotel, ci parla della sua idea di Dio e del suo punto di vista sulla religione. Gli stessi individui che si sentirebbero profondamente turbati se i loro figli, in violazione di una fantasia educativa Watsoniana, mangiassero delle caramelle d’un colore «sconveniente», non si preoccuperebbero affatto se gli stessi figli crescessero senza sentir nominare nemmeno una volta il nome di Dio. Non sarebbe forse in perfetta sintonia con il giusto ordine delle cose, esigere alla base di ogni pronunciamento teologico certi requisiti minimi? Se insistiamo sul fatto che l’uomo al quale facciamo riparare le nostre tubature s’intenda di idraulica e chi ci prescrive dei farmaci abbia studiato la medicina, non potremmo, o meglio, non dovremmo esigere che colui il quale ci parla di Dio, della religione, di Cristo e dell’immortalità abbia almeno l’abitudine di pregare? Se il violinista Kreisler non trascura di esercitarsi nelle scale, perché i moderni teologi dovrebbero disdegnare la pratica elementare della religione?
-Una decadenza del pensiero-
Un’altra prova della decadenza della ragione, che ha dato vita allo strano parassita del libero pensiero, è la passione per la novità, in contrapposizione all’amore per la verità. Si sacrifica la verità in cambio di un epigramma e la divinità di Cristo per il titolo di un articolo comparso sul quotidiano del lunedì. Molti predicatori d’oggi si preoccupano meno di predicare il Cristo Crocifisso e più di conquistare la popolarità per loro e per la congregazione alla quale appartengono. La mancanza di una spina dorsale intellettuale fa sì che essi adoperino come cavalcatura sia il bue della verità, che l’asino dell’insensatezza e che si congratulino con i Cattolici in merito alla «loro grandiosa organizzazione» e con i cultori di sessuologia per la loro «onesta sfida ai giovani delle nuove generazioni».
Il fatto che pieghino le ginocchia innanzi alla folla e vogliano piacere agli uomini, più che a Dio, molto probabilmente toglierebbe loro il desiderio di recitare la parte di Giovanni Battista di fronte ad un moderno Erode. Nessuno di loro punterebbe un dito accusatore contro chi pratica il divorzio, oppure vive nell’adulterio, nessuna voce uscirebbe dalle loro bocche per tuonare all’orecchio del ricco e del potente, con l’accento di un’intolleranza quasi divina: «Non ti è lecito tenere la moglie di tuo fratello!» (Mc 6,18). Sentiremo piuttosto: «Amico, i tempi sono cambiati! Gli acidi della modernità hanno corroso i fossili dell’ortodossia. Se la nobile urgenza del tuo istinto sessuale trova stimolo e risposta nella sola persona di Erodiade, prendila dunque come tua legittima sposa, nel nome di Freud e di Russell, e tienila presso di te fino a quando il sesso non vi separi». Le credenze nell’esistenza di Dio, nella Divinità del Cristo, nella legge morale, sono considerate mode passeggere. La tendenza del momento per questa moderna tolleranza viene considerata l’espressione della verità, come se la verità fosse una moda, tipo un cappello, anziché una parte del corpo, come lo è la testa. Oggi, nell’ambito della psicologia, la moda si rivolge al Behaviorismo o Comportamentismo ed in filosofia si volge al Temporalismo. E che non sia una validità oggettiva a dettare il successo di una moderna teoria filosofica, lo dimostra l’affermazione di un famoso filosofo inglese della teoria spazio-temporale, rivolta pochi anni or sono a chi scrive queste pagine, in risposta alla mia richiesta di spiegazione sull’origine del suo sistema. «Dalla mia fantasia», rispose, ed avendo obiettato che la fantasia non può essere la facoltà adatta alla pratica filosofica, egli replicò: «Lo è invece, se il successo di un sistema filosofico dipende non dalla verità che contiene, bensì dall’attrattiva della sua novità». Ecco dunque l’argomento conclusivo in favore della moderna e vasta apertura mentale: la verità non è se non il nuovo, quindi la «verità» muta col passare delle mode. Come il camaleonte che cambia i suoi colori per adattarsi all’ambiente in cui si trova, così si suppone che la verità cambi per adattarsi ai capricci e alle deviazioni dell’epoca.
La verità si accresce, ma in senso omogeneo, come la ghianda che diventa quercia; non gira col vento come la banderuola di una torre. Un triangolo non può avere quattro lati, il leopardo non può mutare le macchie del suo manto, né l’Etiope può cambiare il colore della sua pelle. La natura di certe cose è fissa e non mai tanto fissa quanto quella della verità. La verità può essere contraddetta mille volte, ma ciò dimostra soltanto che ha la forza di sopravvivere a mille assalti. La logica di chi afferma che «siccome “si dice questo” e “si dice quello”, non esiste verità»; è pressappoco la stessa che avrebbe sfoggiato Cristoforo Colombo se dopo aver sentito dire che «la terra è rotonda» e che «la terra è piatta», avesse concluso: «quindi la terra non esiste».
È questo modo di pensare, che non riesce a distinguere fra una pecora e il cappotto di lana, fra Napoleone ed il suo cappello a due punte, fra la sostanza e l’accidente, che ha prodotto delle menti così appiattite per la larghezza di vedute da aver perduto ogni profondità. Come il carpentiere il quale, gettato via il righello, usa ogni trave come simbolo di misura, così anche quelli che hanno buttato via il modello della verità oggettiva non hanno più nulla che serva loro come unità di misura, all’infuori della moda intellettuale del momento. La gioiosa ebbrezza della novità, l’irrequietudine sentimentale di una mente scardinata ed il timore innaturale di sottoporsi ad una rigorosa disciplina di pensiero, tutto ciò contribuisce a produrre un gruppo di sofisticati latitudinari, i quali credono che non vi sia differenza fra Dio in quanto Causa e Dio in quanto «proiezione mentale», che eguagliano Cristo al Buddha, e San Paolo a John Dewey e quindi dilatano la loro larghezza di vedute sino alla formulazione dell’abbagliante sintesi, secondo la quale non soltanto ogni setta cristiana equivale all’altra, ma che persino una religione è altrettanto valida come tutte le altre che esistono sulla terra. Quindi il sommo dio «Progresso» viene elevato sugli altari della moda, e quando agli adoratori disorientati si chiede: «Progresso in che direzione?», si riceve la tollerante risposta: «Verso un progresso sempre maggiore». Nel frattempo gli uomini sani di mente si domandano come può esistere un progresso, se non si ha una direzione e come può esistere una direzione, se non si ha un punto fisso. E per il fatto di aver accennato ad un «punto fisso» vengono accusati di non essere al passo coi tempi mentre in realtà sono oltre i tempi sia spiritualmente che mentalmente.
-Necessità dell’intolleranza-
Per contrapporla a questa falsa larghezza di vedute, il mondo ha un’urgente bisogno dell’intolleranza. La massa del popolo non ha perduto la facoltà di distinguere fra i dollari ed i centesimi, fra una nave da guerra e una da crociera, fra i crediti attivi e quelli passivi, ma pare abbia del tutto smarrito la forza di distinguere tra il bene ed il male, tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. La migliore prova della verità di tale affermazione sta nel frequente uso errato che si fa dei termini «tolleranza» ed «intolleranza». Certuni credono che l’intolleranza sia sempre da rifiutare, perché per «intolleranza» intendono l’odio, la ristrettezza mentale, il bigottismo. Gli stessi ritengono sempre legittima la tolleranza, perché per essi vuol dire carità, larghezza di vedute, cordialità.
Che cos’è la tolleranza? La tolleranza è un atteggiamento di meditata pazienza verso il male, ed una sopportazione che ci trattiene dal cedere alla collera o dall’infliggere un castigo. Ma più importante della definizione è il campo in cui la si applica. Il punto importante è questo: la tolleranza si applica solo alle persone, ma mai alla verità; l’intolleranza si applica solo alla verità, ma mai alle persone; la tolleranza si applica all’errante, l’intolleranza all’errore. Quanto detto sopra chiarirà ciò che è stato detto al principio di questo capitolo, vale a dire che l’umanità non è tanto colpita da quell’intolleranza che è fatta di bigottismo, quanto dal dilagare della falsa tolleranza, la quale è indifferente alla verità e all’errore, e da una filosofica negligenza che viene interpretata come larghezza di vedute. Senza dubbio c’è da augurarsi un accrescimento della vera tolleranza, perché non sarà mai troppa la carità che si dimostra verso le persone diverse da noi. Il Signore stesso ci ha chiesto di amare coloro che ci calunniano, perché anch’essi formano il nostro prossimo, ma non ci ha mai detto di amare la calunnia. Tenendosi fedele allo spirito del Cristo, la Chiesa incita a pregare per coloro che si trovano fuori dalla Chiesa e vuole che verso di essi venga esercitata una grandissima carità. Come diceva San Francesco di Sales: «È più facile prendere le mosche con una goccia di miele, che con un barile d’aceto».
Se alcuni di noi che hanno la fortuna di far parte della Chiesa credessero nelle stesse cose in cui credono i suoi denigratori, se noi la conoscessimo solamente attraverso le parole dei traditori o le menzogne di storici disonesti e se la comprendessimo soltanto per mezzo di coloro che mai attinsero alla fonte dei suoi Sacramenti, forse anche noi odieremmo la Chiesa quanto essi la odiano. I nemici più irriducibili della Chiesa – coloro che l’accusano di antipatriottismo, stessa accusa ricevuta da Cristo davanti a Pilato; di essere insignificante, come Cristo fu accusato di essere davanti ad Erode; di essere troppo dogmatica, come Cristo fu accusato di essere davanti a Caifa; di essere troppo poco dogmatica, come Cristo fu accusato di essere davanti ad Anna; o di essere posseduta dal demonio, come Cristo fu accusato di esserlo davanti ai farisei – tutti questi non odiano veramente la Chiesa. Non possono odiare la Chiesa più di quanto possano odiare Cristo: odiano esclusivamente ciò che per errore credono sia l’essenza della Chiesa Cattolica, ed il loro odio non è che un vano tentativo di ignorare la realtà.
Si deve praticare la carità verso le persone ed in modo speciale verso coloro che si trovano fuori dall’ovile e che nell’ovile saranno ricondotti dalla carità, affinché vi sia un solo gregge ed un solo Pastore. Fino a qui arriva la tolleranza, ma non oltre. La tolleranza non si deve applicare alla verità, né ai principi. Sulla verità e sui principi si deve essere intolleranti e per questo tipo d’intolleranza, così necessaria per risvegliarci dal sentimentalismo in cui viviamo, faccio un appello. L’intolleranza di questo genere è la base di ogni stabilità. Il Governo dev’essere intollerante nei confronti della propaganda sovvertitrice. Durante la Prima Guerra Mondiale esso compilò un indice dei libri proibiti per difendere la stabilità nazionale, esattamente come la Chiesa, sempre in guerra contro l’errore, compila il suo indice dei libri proibiti per difendere la permanenza della Vita di Cristo – la Grazia – nelle anime degli uomini. Durante la guerra il Governo adottò rigorose misure nei confronti degli eretici nazionali che rifiutavano di accettare i suoi principi intorno alla necessità delle istituzioni democratiche e per mantenere in vigore tali principi ricorse anche alla forza. I soldati che combatterono si dimostrarono intolleranti nell’affermare i principi per i quali lottavano, come dev’essere intollerante il giardiniere nei confronti delle erbacce che crescono nel giardino. La Corte Suprema degli Stati Uniti non tollera alcuna interpretazione personale del primo paragrafo della Costituzione, secondo il quale ogni cittadino ha diritto alla vita, alla libertà, ed al conseguimento di un’esistenza felice e pertanto, ogni individuo che si considerasse «libero» di proseguire per la sua via quando il semaforo è rosso provocando un incidente mortale, si troverebbe senza dubbio rinchiuso in una cella, dove non splenderebbe nemmeno quella luce gialla che è il colore delle anime timide, le quali non sanno se andare avanti o fermarsi. Gli architetti non tollerano la sabbia come fondamenta per i grattacieli, i medici non tollerano la presenza di germi nel laboratorio e nessuno di noi si mostra tollerante verso l’allegro cassiere di vedute particolarmente larghe, il quale, nel fare il conto, fa risultare che sette più dieci fa venti.
Orbene, se è giusto – come lo è veramente – che i governi si mostrino intolleranti quando sono in gioco i principi dello Stato, che i costruttori di ponti siano intolleranti intorno alle leggi della tensione e del carico e che i fisici lo siano rispetto ai principi della forza di gravità, perché mai il Cristo e la Sua Chiesa e tutti gli uomini benpensanti non dovrebbero avere il diritto di essere intolleranti quando sono in gioco le verità del Cristo, le dottrine della Chiesa ed i principi della ragione? Le verità di Dio saranno meno rigide delle verità matematiche? Potranno le leggi del pensiero essere meno impegnative delle leggi della scienza, le quali si conoscono soltanto attraverso le leggi del pensiero? Possiamo definire «saggio» l’uomo che, non ignaro delle verità naturali, rifiuta di avere lo stesso occhio di riguardo sia per il matematico il quale dice «due più due fa cinque», sia per quello che dice «due più due fa quattro» e negheremo, per la stessa ragione, l’appellativo di «Sapienza Infinita» a Dio perché si rifiuta di avere lo stesso occhio di riguardo verso tutte le religioni della terra? E per questo motivo, lo definiremo un Dio «intollerante»? Affermeremo forse che i raggi riflessi del sole sono caldi, ma non è caldo il sole? Stiamo dicendo la stessa cosa quando ammettiamo l’intolleranza dei principi del la scienza e la neghiamo al Padre della scienza, che è Dio. E se un governo, fornito degli inflessibili principi della sua costituzione, può investire degli uomini col potere esecutivo di tale costituzione, perché non può il Cristo scegliere e delegare coloro a cui Egli dà l’incarico di rendere esecutivo il Suo Volere e di distribuire le Sue benedizioni? E se ammettiamo l’intolleranza attorno ai fondamenti di un governo che nel migliore dei casi si occupa del corpo dell’uomo, come non ammetteremo l’intolleranza intorno ai fondamenti di un governo che si cura degli eterni destini dello spirito dell’uomo? «Non vi è alcun fondamento sul quale gli uomini possano costruire, se non sul nome di Gesù»
-Necessità dei dogmi-
Perché dunque irridere i dogmi col definirli intolleranti? Oggi da ogni parte si sente dire: «Il mondo moderno ha bisogno di una religione libera dai dogmi», il che rivela quanto poco pensino coloro che si servono di tale formula, perché chi afferma di volere una religione senza dogmi sta nello stesso tempo formulando un dogma, che è ben più difficile da giustificare rispetto a molti dogmi della fede. Il dogma è un pensiero autentico ed una religione senza dogmi è una religione senza pensiero o una schiena senza spina dorsale. Tutte le scienze hanno dei dogmi. «Washington è la capitale degli Stati Uniti» è un dogma geografico. «L’acqua si compone di due atomi di idrogeno e di uno di ossigeno» è un dogma chimico. Vogliamo essere di larghe vedute e dire che Washington è un mare della Svizzera? Vogliamo avere la libertà di dire che l’H2 O è il simbolo dell’acido solforico?
Non siamo in grado di verificare tutti i dogmi della scienza, della storia e della letteratura e quindi dobbiamo fidarci delle competenze altrui. Io, per esempio, credo al professor Eddington quando mi dice che «la legge di gravità di Einstein asserisce che dieci coefficienti principali di curvatura sono zero nello spazio vuoto», come non credo invece al dottor Harry Elmer Barnes quando mi dice che «lo scarafaggio vive sulla terra, senza avere subito sostanziali mutamenti, da cinquanta milioni di anni». Accetto la testimonianza del dottor Eddington, perché egli ha dimostrato con le sue opere scientifiche di conoscere abbastanza bene le teorie di Einstein. Non accetto la testimonianza del dottor Barnes sulla vita degli scarafaggi, perché di fronte al mondo moderno egli non ha mai dato alcuna prova di essere uno specialista su tale argomento. In altre parole, metto al vaglio le testimonianze e le accetto alla luce della ragione. Allo stesso modo la mia ragione mette al vaglio le prove storiche sul Cristo, essa pondera la testimonianza di coloro che lo conobbero e quella data da Lui stesso. La mia ragione non si lascia influenzare da coloro che prendono le mosse da una teoria preconcetta, rifiutano ogni evidenza contraria alla loro teoria ed accettano come Vangelo tutto il resto. (…)
La mia ragione stessa mi porta alla fine ad accettare come divina la testimonianza di Gesù Cristo. Ed infine accetto quelle verità che non sono in grado di provare, come ho fatto per l’affermazione del professor Eddington intorno ad Einstein, e tali verità diventano dogmi. Esistono quindi sia i dogmi della religione che quelli della scienza, ed essi possono essere rivelati, gli uni da Dio, e gli altri dall’uomo. E inoltre questi dogmi fondamentali, come i primi principi di Euclide, possono essere usati come materia prima per il ragionamento e come un fatto scientifico può servire di base per un altro, così un dogma può servire di base per un altro. Ma per iniziare a pensare ad un primo dogma, bisogna identificarsi con esso sia in termini di tempo che di principio.
La Chiesa s’identificò in Cristo sia nel tempo che nel principio, essa incominciò a riflettere sui primi principi di Lui, e più rifletté, e più dogmi essa sviluppava. Essendo organica come la vita e non istituzionale come un’associazione, essa non dimenticò mai quei dogmi, li ricordò incessantemente e la sua memoria è la tradizione. Come lo scienziato deve risalire con la memoria ai primi principi della sua scienza, dei quali si serve come terreno per ulteriori conclusioni, così la Chiesa risale alla sua memoria intellettuale che è la tradizione e si serve dei primi dogmi come base per altri. In tutto questo procedimento essa non dimentica mai i suoi primi principi. Se lo facesse, assomiglierebbe ai dogmatisti antidogmatici d’oggi, i quali credono che il progresso consista nel negare il fatto invece di costruire su di esso, che si volgono verso nuovi ideali perché non hanno mai messo in pratica quelli antichi e che condannano come «oscurantista» la verità che ha una discendenza, celebrando le glorie «progressiste» della menzogna che non conosce né padre né madre. Questi antidogmatici appartengono alla scuola che sarebbe disposta a negare la natura stessa delle cose, che vorrebbe togliere al cammello la gobba e continuare a chiamarlo cammello; accorciare il collo alla giraffa e chiamarla sempre giraffa; a non incorniciare mai un quadro, perché la cornice è una limitazione e quindi un principio, un dogma. Ma significa essere tutt’altro che fautori del progresso se ci si comporta come topi che rodono le fondamenta del tetto che serve loro di protezione.
L’intolleranza riguardo ai principi è il fondamento dello sviluppo, ed il matematico disposto a deridere un quadrato perché ha sempre quattro lati e che in nome del progresso volesse incitarlo a rifiutare anche solo uno dei suoi lati, scoprirebbe ben presto di aver perduto tutti i quadrati. Lo stesso avviene per i dogmi della Chiesa, della scienza e della ragione: sono come i mattoni, oggetti solidi con i quali l’uomo può costruire, non come la paglia, che è «un’esperienza religiosa», adatta soltanto per essere bruciata. Quindi il dogma è la necessaria conseguenza dell’intolleranza intorno ai primi principi e la scienza o la Chiesa che ha la maggior quantità di dogmi è anche quella che ha lavorato di più con il pensiero. La Chiesa Cattolica, maestra da più di venti secoli, ha accumulato una somma enorme di pensiero solido e rigoroso e quindi ha costruito i suoi dogmi, come un uomo potrebbe edificare una casa di mattoni, fondata sulla roccia. Essa ha visto passare davanti ai suoi occhi i secoli con i loro entusiasmi transitori e le fedi del momento, con i medesimi errori, le stesse posizioni, le cadute nelle identiche trappole mentali, così da diventare molto tollerante e paziente verso gli alunni che sbagliano, ma anche molto intollerante e severa rispetto all’errore. È stata e sarà sempre intollerante quando sono in gioco i diritti di Dio, perché l’eresia, la menzogna e la mancanza di verità non colpiscono questioni personali sulle quali essa possa cedere, bensì un Diritto Divino sul quale non è lecito fare alcuna concessione. Mite verso l’errante, la Chiesa è violenta contro l’errore. La verità è divina, mentre l’eretico è umano. Una volta compiuta la dovuta riparazione, essa riaccoglierà l’eretico nel tesoro delle sue anime, ma non ammetterà mai l’eresia nel tesoro della sua saggezza.
La verità è sempre giusta, anche se nessuno si trovasse dalla parte della giustizia e l’errore è sempre sbagliato, anche se tutti si trovassero dalla parte dell’ingiustizia. Ai nostri giorni noi abbiamo bisogno, come disse Chesterton, «non di una Chiesa che sia nel giusto quando il mondo è nel giusto, ma di una Chiesa che sia nel giusto anche quando il mondo è nell’errore». L’atteggiamento della Chiesa in rapporto al mondo moderno su tale importante questione si può simbolizzare nella storia delle due donne presentatesi alla corte di Salomone (1Re 3,16–28). Entrambe reclamavano per sé un figlio. La madre legittima insisteva per avere il figlio intero, oppure nulla, perché un figlio è come la verità: indivisibile. La madre illegittima, al contrario, era disposta ad accettare un compromesso: avrebbe accettato di dividere il bambino, ed il bambino sarebbe morto, vittima di quella tollerante larghezza di vedute.
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DAL LIBRO APPENA PUBBLICATO “VERITÀ E MENZOGNE: UNA CRITICA PROFETICA DEL PENSIERO MODERNO. Edizioni Mimep”
UN PEZZO DEL SESTO CAPITOLO:
“IL TEISMO DEGLI ATEI”
L’esigenza filosofica di un nuovo Dio non è in fondo che una forma di ateismo. Vi sono due maniere di essere atei: l’una consiste nel dire: «Dio non esiste»; l’altra nel dire: «Abbiamo bisogno di una nuova idea di Dio e questo Dio è lo Spazio-Tempo, ovvero la tendenza ideale nelle cose». Rispetto a questo secondo tipo di ateismo, confesso di non essere mai riuscito a comprendere come certe menti possano ammettere che l’universo è Dio e tuttavia negare che un uomo, ovvero Cristo, possa essere Dio. Un’altra cosa ugualmente difficile da comprendere è come certi umanisti possano dire che Dio è la società dei milioni di milioni di persone oggi viventi e tuttavia negare che in Dio possano esistere tre persone, vale a dire la Trinità.
La negazione di Dio non è una dottrina: è soltanto un grido di collera. Se l’ateismo significa negare che l’universo esiga una causa al suo esistere, qualunque essa sia, è pur vero che ci sono pochissimi atei, se pure ne esiste qualcuno. Uno dei più famosi atei dei tempi moderni, Félix Le Dantec, dice che «molti si autodefiniscono atei, senza sapere ciò che significhi». Alcuni si dicono atei mentre il loro ateismo non significa la negazione di una causa, ma solo l’ignoranza di essa. In altri l’ateismo s’identifica nella legge dell’universo, come se potesse esistere una legge, senza il legislatore. Alcuni affermano che l’universo si è fatto da sé, è causa di se stesso… tale posizione è ragionevolmente insostenibile, perché se l’universo fu la causa di se stesso, avrebbe dovuto preesistere a se stesso per potersi creare, il che è una stupidaggine. Si può quindi a ragione parlare del teismo degli atei, perché la negazione stessa di Dio afferma in qualche modo la Sua esistenza.
Supponete che io mi dedichi a diffondere in tutto il paese degli opuscoli coi quali intendo combattere la credenza nelle fate, negli spettri, nei folletti e nelle mucche che saltano sulla luna, supponete che io scriva dei libri contro i centauri e contro i fantasmi che svolazzano come bolle di sapone, supponete che mi serva della radio per mettere in guardia il pubblico contro l’Omino del Sonno, che sparge la sabbia negli occhi dei bambini ancora svegli alle nove di sera. Quale sarebbe la reazione del gran pubblico? Probabilmente mi metterebbero sotto chiave come un pazzo disturbatore della quiete pubblica e non a torto, perché avrei provato, al di là di ogni dubbio, di essere uscito di senno: non è forse la pazzia la credenza nelle creature nate dalla fantasia? Ora supponete che Dio, come affermano gli atei, non sia più reale dei centauri e delle fate, supponete che Dio appartenga allo stesso mondo strano e irreale delle fantasie intorno ai fantasmi. Ora, mi domando, come avviene che la società mi tratterebbe da pazzo se mi dedicassi, anima e corpo, alla lotta contro le mucche che saltano sulla luna, e tuttavia non ritiene pazzo l’ateo, per la ragione che egli conduce una campagna per provare che Dio appartiene alla stessa categoria di immaginazioni e fantasie?
La ragione è ovvia. L’ateo non è pazzo, quello contro cui io lotterei sarebbe il frutto della mia fantasia, ma ciò contro cui lotta l’ateo è una realtà, una cosa altrettanto reale come il colpo di una spada o un abbraccio. L’uomo è pazzo se crede che un’immagine della fantasia sia reale, ma l’ateo non lotta contro un’immagine che considera reale, bensì contro una realtà che egli reputa irreale. In altre parole, ciò che salva l’ateo dall’essere accusato di pazzia è il fatto che egli combatte la Realtà per la quale tutte le altre cose sono reali. Il comandante Foch non era pazzo quando a Reims giudicò che le uniformi grigie erano quelle del nemico, è la concretezza del nemico a rendere giustificato e solido l’attacco ed è l’obiettività del nemico dell’ateismo a salvare gli atei dalla pazzia, sebbene non li possa salvare dalla tristezza. Ecco perché si può parlare del teismo degli atei. Certe cose sono tanto fondamentali che negarne l’esistenza significa affermarle. Se io, per esempio, nego la mia esistenza, non faccio che dimostrarla, perché prima di negarla ho bisogno di esistere. La negazione implica un’affermazione ed in via ancor più generale, la negazione del Principio di ogni esistenza implica l’esistenza di quel Principio. Se non esistessero vini, né liquori, non ci sarebbe il Proibizionismo. Il fatto stesso che esiste una coalizione contro i saloon, implica il fallimento della legge sulle bevande alcoliche e l’esistenza dei saloon, o almeno dei bar clandestini. Se non ci fossero sigarette, non ci sarebbe mai stata alcuna legge contro le sigarette, e se non ci fosse Dio, come potrebbe esistere l’ateismo? Non implica forse l’ateismo l’abolizione di una Cosa reale? (…)
L’identico processo ragionativo, che rende altre cose intelligibili, è quello che rende intelligibile Dio, fonte dei valori e delle realtà permanenti. Le grandi menti d’oggi rivolgono i telescopi su Marte e distinguono i tracciati, che potrebbero essere canali. Ragionano quindi così: su Marte vi sono dei canali, ma solo un essere intelligente può costruire un canale, perciò Marte dev’essere abitato da qualcuno. Ora, io vi giuro che non riesco a comprendere perché sia logico dedurre, dalla vista di un canale, l’esistenza di un costruttore di canali e non debba essere logico dedurre, dalla vista dell’universo, l’esistenza di un Costruttore dell’universo stesso. Vi sono altri individui che rivoltano le sabbie roventi del deserto egiziano, scoprono poche tombe e qualche rovina, e da tali misere testimonianze ricostruiscono la natura di una lontanissima civiltà. Se ciò è logico – e lo è infatti – perché le stesse persone non dovrebbero dedurre qualcosa della Giustizia, della Bontà e della Bellezza di Dio dalle vestigia delle cose che si scoprono nell’universo? E inoltre, se vi sono nel mondo delle menti che credono che l’universo sia guidato per uno scopo, perché non dovrebbero ammettere l’esistenza di Dio, se non può esservi uno scopo senza una mente, ed una mente senza una Persona?
No! Non può esistere un universo senza Dio, perché esso non potrebbe sopportare il dolore di non conoscere il suo Autore e la sua Causa; né può esistere un’umanità senza Dio, perché non potrebbe sopportare il fardello del proprio cuore. Ecco perché gli atei mi fanno sempre una grande pena: non possono mai dire addio (Dio sia con te) agli amici.
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ALCUNE RIFLESSIONI DAL LIBRO “VERITÀ E MENZOGNE” CHE È STATO APPENA PUBBLICATO DALLA CASA EDITRICE MIMEP. ALLA FINE TROVERETE IL LINK PER L’ACQUISTO DEL LIBRO.
È piuttosto illogico che un moralista si occupi di una «crisi della morale», quando parte dal presupposto che l’uomo è una scimmia diventata nobile. La vera crisi non è della morale, bensì della logica: quella logica che vorrebbe far derivare da un essere amorale, l’uomo morale e dalla scimmia, il suonatore di organetto.
LA FALSA TOLLERANZA E LA NECESSITÀ DELL’INTOLLERANZA
Si dice che l’umanità sia colpita dal morbo dell’intolleranza. In realtà è vero il contrario. Essa è affetta da un eccesso di tolleranza, la tolleranza su ciò che è giusto e su ciò che non lo è, sulla verità e sull’errore, sulla virtù e sul vizio, sul Cristo e sul caos… Per contrapporla a questa falsa larghezza di vedute, il mondo ha un’urgente bisogno dell’intolleranza. (…)
Che cos’è la tolleranza? La tolleranza è un atteggiamento di meditata pazienza verso il male, ed una sopportazione che ci trattiene dal cedere alla collera o dall’infliggere un castigo. Ma più importante della definizione è il campo in cui la si applica. Il punto importante è questo: la tolleranza si applica solo alle persone, ma mai alla verità; l’intolleranza si applica solo alla verità, ma mai alle persone; la tolleranza si applica all’errante, l’intolleranza all’errore.
LA MENTE ANORMALE DELL’ATEO CHE NON RICONOSCE DIO
È incredibile il pensiero che i cieli abbiano un diametro di duemila milioni di anni luce, a confronto della piccolissima terra, ma è banale se paragonato all’immagine della «Mano che ha misurato i cieli»!
La mente normale che si abbandona alla contemplazione dell’immensità dei cieli viene naturalmente e, quasi a sua insaputa, condotta a concepire l’esistenza di un Essere Onnipotente che li ha distesi nello spazio e li ha sottoposti ad una legge, per cui l’astro passa accanto all’astro, ed il pianeta accanto al pianeta, senza intoppo né sosta.
Anormale è la mente che alla vista della potenza e della grandiosità si sente spinta a pensare a ciò che è piccolissimo; non è naturale che, nel contemplare un grattacielo, l’uomo pensi alla piccolezza della pulce: è invece naturale che pensi alla grandezza della mente che l’ha ideato. Il grande affresco che ricopre tutta una parete non fa che l’uomo sano di mente pensi ad uno gnomo, bensì all’artista.
LA VERITÀ E L’IDOLO DEL PROGRESSO
Ecco dunque l’argomento conclusivo in favore della moderna e vasta apertura mentale: la verità non è se non il nuovo, quindi la «verità» muta col passare delle mode. Come il camaleonte che cambia i suoi colori per adattarsi all’ambiente in cui si trova, così si suppone che la verità cambi per adattarsi ai capricci e alle deviazioni dell’epoca, come se i fondamenti del pensiero potessero essere veri per i Pre-Adamiti, e falsi per gli Adamiti. La verità si accresce, ma in senso omogeneo, come la ghianda che diventa quercia; non gira col vento come la banderuola di una torre. Un triangolo non può avere quattro lati, il leopardo non può mutare le macchie del suo manto, né l’Etiope può cambiare il colore della sua pelle. La natura di certe cose è fissa e non mai tanto fissa quanto quella della verità. La verità può essere contraddetta mille volte, ma ciò dimostra soltanto che ha la forza di sopravvivere a mille assalti. La logica di chi afferma che «siccome “si dice questo” e “si dice quello”, non esiste verità»; è pressappoco la stessa che avrebbe sfoggiato Cristoforo Colombo se dopo aver sentito dire che «la terra è rotonda» e che «la terra è piatta», avesse concluso: «quindi la terra non esiste». È questo modo di pensare, che non riesce a distinguere fra una pecora e il cappotto di lana, fra Napoleone ed il suo cappello a due punte, fra la sostanza e l’accidente, che ha prodotto delle menti così appiattite per la larghezza di vedute da aver perduto ogni profondità. Come il carpentiere il quale, gettato via il righello, usa ogni trave come simbolo di misura, così anche quelli che hanno buttato via il modello della verità oggettiva non hanno più nulla che serva loro come unità di misura, all’infuori della moda intellettuale del momento.
La gioiosa ebbrezza della novità, l’irrequietudine sentimentale di una mente scardinata ed il timore innaturale di sottoporsi ad una rigorosa disciplina di pensiero, tutto ciò contribuisce a produrre un gruppo di sofisticati latitudinari, i quali credono che non vi sia differenza fra Dio in quanto Causa e Dio in quanto «proiezione mentale», che eguagliano Cristo al Buddha, e San Paolo a John Dewey e quindi dilatano la loro larghezza di vedute sino alla formulazione dell’abbagliante sintesi, secondo la quale non soltanto ogni setta cristiana equivale all’altra, ma che persino una religione è altrettanto valida come tutte le altre che esistono sulla terra. Quindi il sommo dio «Progresso» viene elevato sugli altari della moda, e quando agli adoratori disorientati si chiede: «Progresso in che direzione?», si riceve la tollerante risposta: «Verso un progresso sempre maggiore». Nel frattempo gli uomini sani di mente si domandano come può esistere un progresso, se non si ha una direzione e come può esistere una direzione, se non si ha un punto fisso. E per il fatto di aver accennato ad un «punto fisso» vengono accusati di non essere al passo coi tempi mentre in realtà sono oltre i tempi sia spiritualmente che mentalmente.
LA DIFFERENZA FRA IL MEDIOEVO E L’EPOCA MODERNA È LA FEDE IN DIO
L’intero contrasto che esiste fra il Medioevo, che ricercava le cause prime, e l’età moderna, che persegue le cause secondarie, si trova esemplificato nell’arte: nel Medioevo nessuno scultore incideva mai il suo nome su una scultura; e la ragione era che egli lavorava per Dio; e riconosceva che era da Dio che gli veniva la capacità di scolpire, e la mente d’artista; e quando egli lasciava anonima la sua opera, era a Dio, Causa Prima, che risaliva il merito. Ai nostri giorni, lo scultore incide nel marmo il suo nome, perché egli lavora per l’uomo, ed ha dimenticato la Causa Prima, la Causa di tutte le cause, che è Dio. (…)
L’arte del Medioevo è l’arte di un’umanità redenta. È radicata nell’anima Cristiana, sulla sponda delle acque vive, sotto il cielo delle virtù teologali, e fra i dolci zeffiri dei sette doni dello Spirito Santo. Perché nel medioevo non si trattava di fare dell’arte cristiana; si trattava piuttosto di essere cristiani. Se tu eri cristiano, la tua arte era cristiana. Se credevi nei dogmi eterni, la tua arte avrebbe espresso le verità eterne. L’artista medioevale diceva: “Se vuoi scolpire le cose del Cristo, devi vivere col Cristo”. Per l’uomo del medioevo, l’arte esigeva calma e meditazione piuttosto che eccitamento e moto febbrile. La storia ci dice che il Beato Angelico pianse mentre dipingeva la “Crocifissione” che oggi si trova nel Convento di San Marco a Firenze.
LA CRISI DELLA MORALE
La crisi non è della morale, ma degli amorali. La colpa non è della legge, ma dei trasgressori che la violano. La verità di quest’osservazione è confermata dall’incapacità di questi scrittori di distinguere tra il problema di rendere gli uomini conformi alle norme e quello di creare delle norme conformi agli uomini. Invece di insistere perché l’uomo si sforzi per superare l’esame, essi alterano l’esame stesso. Invece di incitarlo a tener fede agli ideali, essi cambiano gli ideali. Ed in conformità alla medesima logica, insistono affinché la morale cambi per soddisfare coloro che non sanno vivere moralmente, e che l’etica si trasformi per compiacere chi non sa condurre una vita etica. Tutto ciò avviene per il principio democratico di certi filosofi, i quali sono pronti a costruire qualsiasi tipo di filosofia che gli uomini desiderino. Se gli uomini vogliono gli spettri, i filosofi democratici, che ben conoscono i desideri della massa, scriveranno una filosofia che giustifichi i fantasmi; se l’uomo comune vuole seguire la linea di minore resistenza morale, i filosofi svilupperanno in suo favore la comoda filosofia che giustifica la libera espressione di sé; se l’uomo d’affari non ha tempo di pensare all’eternità, allora i filosofi svilupperanno per lui la filosofia dello «spazio-tempo». In ultima analisi, ci sono da scegliere solo due sistemi possibili nella vita: l’uno consiste nell’adattare la nostra vita ai principi, l’altro consiste nell’adattare i principi alla nostra vita. «Se non si vive come si pensa, presto s’incomincerà a pensare come si vive». Il metodo di adattare i principi morali alla condotta della vita degli uomini, non è se non il pervertimento del giusto ordine delle cose.
-«Gli scienziati afferrano la melodia, ma non giungono al suonatore»-
La scienza non è che la riduzione del molteplice nell’unità del pensiero, e come non può esistere scienza senza lo scienziato, così non potrebbe esistere nel cosmo ordine né legge, se esso non fosse stato creato secondo una legge ed un ordine. La mente umana non impone alcuna legge all’universo: essa si limita a scoprire le sue leggi. Se l’uomo vi scopre l’intelligibilità, vuol dire che qualcuno ve l’ha posta nel creare il cosmo in modo intelligente. Così il «silenzio stesso delle sfere», che terrorizzò Pascal, spronò la sua mente fino a fargli scoprire una Fonte di Sapienza Trascendentale per quell’ordine immanente, che è l’Infinito Dio, al Quale sia onore e gloria per sempre. Coloro che si rifiutano di unificare il cosmo in termini di Pura Intelligenza, accontentandosi delle cause secondarie, possono essere paragonati a un topo sapientissimo che dimora in un pianoforte da concerto, il quale si lusinga di aver scoperto il segreto della musica avendo studiato il gioco dei martelletti sulle corde… una scoperta che ha potuto fare senza uscire dal suo piccolo mondo. «Gli scienziati afferrano la melodia, ma non giungono al suonatore».
IL SOLE E IL MISTERO
La borghesia colta dei tempi moderni è ignorante perché non ha mai dubbi. Gli uomini d’oggi tentano di rendere tutto chiaro, e perciò rendono tutto misterioso. Dimenticano che perfino la natura contiene un mistero, dimenticano che esiste, in questo nostro cosmo sconfinato, qualcosa di così terribilmente misterioso, che non lo possiamo «vedere»: il sole. Ci piaccia o no, esso ci costringe a chiudere gli occhi, e tuttavia, alla luce di questo grande mistero naturale, diventa chiara ogni altra cosa al mondo. Così avviene anche nelle più alte sfere dell’intelletto: è alla luce di un immenso mistero soprannaturale come l’Incarnazione che tutte le cose diventano chiare, persino il problema del male.
LA NATURA DELL’UOMO È RAZIONALE
La natura dell’uomo è razionale o intellettuale. Ed ecco dove si fermano i moralisti moderni, col rifiutare di seguire la ragione: per loro il modello morale è stabilito soltanto dai «sentimenti». Se la natura dell’uomo è razionale, le sue tendenze si devono giudicare alla luce della ragione. Ma giudicare qualsiasi cosa razionalmente significa giudicarla in rapporto al fine o allo scopo per il quale è stata creata. Una penna si valuta secondo la sua capacità di scrivere, perché tale è il suo scopo; l’occhio si valuta dalla sua forza visiva, perché tale è la sua ragione di essere. L’uomo è stato creato per la piena soddisfazione del suo desiderio e tentativo di raggiungere la Vita, la Verità e l’Amore, che è Dio. E, quindi, l’uomo dev’essere giudicato in rapporto a questo fine, cioè nella sua sottomissione, o nella ribellione ad esso. In altre parole, l’uomo ha dei doveri verso Dio, e Dio ha il diritto di esigerne l’adempimento, per la stessa ragione che ogni scrittore ha il diritto di esigere i diritti d’autore su ogni opera, perché si tratta delle sue creazioni. Questo nostro adempimento dei doveri verso Dio, questa obbedienza alla Sua volontà, che è sinonimo del perfetto sviluppo di tutta la nostra natura, è il fondamento e la base della moralità.
La morale è quindi l’ordine rispetto ad un fine, ed esige che tutte le cose tendano verso il loro destino già stabilito. Dio Onnipotente ha posto nelle varie gerarchie della creazione una legge immanente che servisse loro da guida: le leggi della natura, come la forza di gravità, le affinità chimiche e altre simili, dirigono le sostanze chimiche verso il compimento della loro natura; le leggi della vita, come il metabolismo, guidano le piante alla perfezione del proprio destino; gli istinti guidano gli animali, la ragione dirige l’uomo. La ragione pratica dell’uomo, che gli permette di inserire i casi singoli nel quadro dei principi generali che interessano il suo destino ultimo, è la coscienza. E quindi, in primo luogo, la morale significa un rapporto consapevole fra la natura dell’uomo e la meta del suo essere, ed in secondo luogo, essa implica un principio immanente di guida pratica, che è appunto la coscienza. La legge immanente nella parte della creazione inferiore all’uomo è inconsapevole e necessaria. Ne deriva che la ghianda segua naturalmente il suo destino e si sviluppi per dar vita alla quercia. L’uomo, al contrario, è libero di interrompere la sua crescita, e di scegliere un fine diverso da quello che è l’espansione delle sue facoltà in unione con l’Amore Perfetto. Se vuole, l’uomo può tralasciare di diventare quercia: può rimanere un povero arboscello, vale a dire un povero diavolo. Ecco ciò a cui la nuova scuola morale vorrebbe ridurre tutti noi.
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QUI SOTTO POTETE LEGGERE UN PEZZO DEL PRIMO CAPITOLO DEL NUOVO LIBRO DI FULTON SHEEN APPENA PUBBLICATO “VERITÀ E MENZOGNE: UNA CRITICA PROFETICA DEL PENSIERO MODERNO”.
IL DECLINO DELLA CONTROVERSIA
Le cause di tale decadenza dell’arte della controversia sono duplici: religiose e filosofiche. La religione dell’uomo moderno ha enunciato un grande dogma fondamentale che sta alla base di ogni altro, vale a dire che la religione deve sbarazzarsi dei suoi dogmi. I credo e le confessioni di fede non sono più di moda; i nuovi leader religiosi si sono accordati per non essere in disaccordo e quelle convinzioni, per le quali alcuni dei nostri antenati sarebbero morti, si sono disciolte in un Umanesimo senza spina dorsale. Come altri Pilati, hanno voltato le spalle all’unicità della verità e hanno spalancato le braccia a tutti gli umori e le fantasie che impone il mondo. Posso immaginare che un Calvinista osservante, il quale ritenga che l’espressione «vai all’inferno» sia pregna di un tremendo senso dogmatico, arrivi ad un violento scontro intellettuale con un Metodista altrettanto osservante, il quale ritiene che si tratti semplicemente di una frase volgare, ma non riesco ad immaginare una possibilità di dibattito nel caso che entrambi, a somiglianza dei nostri Modernisti, decidano di mandare al diavolo l’inferno, per la ragione che non credono più nell’uno e neppure nell’altro.
La seconda causa è filosofica e si fonda sulla speciale corrente di pensiero americana detta «pragmatismo», il cui scopo è di provare l’inutilità di ogni prova. Il tedesco Hegel rese razionale l’errore, l’americano James ha reso irrazionale la verità. Da ciò nasce una preoccupante indifferenza nei confronti della verità, e la tendenza a considerare vero l’utile, e falso ciò che esula dal campo pratico. Colui che si lascia convincere dalle prove viene considerato bigotto, e colui che trascura ogni prova, né si occupa di ricercare la verità, viene giudicato di mente aperta e tollerante. È forse la Chiesa Cattolica, più di tutte le altre forme di cristianesimo, a notare la decadenza nell’arte della controversia. Mai come ora, lungo la sua storia, essa si è sentita altrettanto impoverita per la mancanza di una solida opposizione intellettuale. Oggi non esistono nemici degni della sua spada e se attualmente la Chiesa non offre alcun grande pensatore, o alcuna somma di pensiero, è perché non viene sfidata e quindi indotta a farlo. Il progresso in tutti i campi, anche nel pensiero, nasce da una sfida. Per due ragioni la Chiesa ama il dibattito: perché i conflitti intellettuali sono fruttuosi, e perché essa ama grandemente la ragione. Fu attraverso la controversia che venne edificata l’immane struttura della Chiesa Cattolica. (…)
La Chiesa ama la controversia, non soltanto perché ne trae un incitamento all’attività dello spirito, ma anche per amore della controversia in sé. Si accusa la Chiesa di essere nemica della ragione: al contrario, è la sola al mondo che abbia fiducia nella forza di questa. Col far uso della ragione al Concilio Vaticano I, essa si pronunciò ufficialmente in favore di un sano Razionalismo e dichiarò contro la falsa umiltà degli Agnostici, e la fede sentimentale dei Fideisti, che la sola ragione può giungere a conoscere qualcosa in più della realtà, e che partendo dai fenomeni puramente sensibili, può risalire sino al mistero delle «fortezze eterne», per scoprire il Senza Tempo al di là del tempo e il Senza Spazio al di là dello spazio, cioè Dio: l’Alfa e l’Omega di tutte le cose. La Chiesa chiede ai suoi figli di pensare con intensità e con chiarezza. Poi chiede loro di fare un doppio uso dei loro pensieri: in primo luogo li invita ad esteriorizzarli nel mondo concreto dell’economia, del governo, del commercio e dell’istruzione, per produrre, con tale opera di concretizzazione del pensiero bello e chiaro, una civiltà chiara e bella. La qualità di ogni civiltà dipende dalla natura dei pensieri di cui i suoi migliori pensatori l’arricchiscono. Se i pensieri esternati sulla stampa, nel parlamento o dalle tribune pubbliche saranno meschini, la civiltà stessa assumerà una natura ugualmente meschina, con la rapidità attraverso cui il camaleonte assume il colore dell’ambiente. Ma se i pensieri, che si traducono in parole, saranno alti e nobili, la civiltà, come un crogiuolo, si colmerà dell’oro delle cose degne. (…)
D’altro canto, la Chiesa combatte l’errore di pensiero, perché un pensiero cattivo, libero di girare per il mondo, è più pericoloso di un pazzo criminale. Ogni fatica ha una vita breve, ma i pensieri durano a lungo. Quando la società scopre che è troppo tardi per mandare alla sedia elettrica un pensiero, condanna a morte l’uomo che ne è colpevole. Vi fu un tempo in cui i Cristiani, per salvare la società, mettevano al rogo il pensiero e, dopo tutto, si potrebbe dire qualcosa in favore di tale pratica: l’uccisione di un solo pensiero cattivo può voler dire la salvezza di diecimila pensatori. Ben sapevano questo gli imperatori romani, i quali uccidevano i Cristiani non perché volevano i loro cuori, ma perché volevano le loro teste, o meglio, i loro cervelli; quei cervelli che stavano pensando a come distruggere il Paganesimo. L’intento di queste pagine è appunto di ragionare su come sia possibile mettere a morte il Neo-Paganesimo.
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