LA SALVEZZA NON È UN PASSATEMPO CON CUI OCCUPARE IL TEMPO LIBERO! IL CASTIGO PER LA NEGLIGENZA: “LA PARABOLA DEI TALENTI”

QUI DI SEGUITO POTETE LEGGERE IL QUARTO CAPITOLO DEL NUOVO LIBRO DI FULTON SHEEN: “IL REGNO DI DIO È UNA SFIDA. UNA GUIDA PER IL CIELO” EDIZIONI MIMEP.

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4. IL CASTIGO PER LA NEGLIGENZA: LA PARABOLA DEI TALENTI

“Dato che l’universo è morale, ed è quindi una valle di formazione per l’anima e per lo sviluppo personale del carattere, ne consegue che ognuno deve darsi da fare per la sua salvezza. Il traguardo della vita morale può essere mancato non solo per gravi violazioni della legge morale, ma anche per la semplice negligenza nell’uso delle facoltà, talenti e grazie, che ci sono stati donati da Dio per tale scopo.”

Da quando Dio scelse di creare un universo morale nel quale, in virtù del dono della libertà interiore conferito all’uomo, possono svilupparsi caratteri forti e virtuosi, esso è divenuto un campo di battaglia fra le forze del bene e quelle del male. Stando così le cose, è importante chiederci: possiamo assumere una posizione neutrale e disinteressata rispetto a questo scontro? Ci sono due risposte a questa domanda: una è la risposta del mondo, l’altra quella di Nostro Signore. La risposta del mondo può essere riassunta in una sola parola “indifferenza”; la risposta di Nostro Signore è data da queste parole: “Il regno dei cieli soffre violenza e i violenti se ne impadroniscono” (Mt 11,12).

In materia di religione, il mondo moderno professa l’indifferenza. In termini semplici, ciò significa né un grande amore né un grande odio; esso non vi trova alcun motivo per spendervi la vita, né una ragione per sacrificarla. Il mondo enumera le proprie virtù contando i vizi dai quali si astiene, chiede una religione facile e piacevole da praticare, affibbia il termine “mistico” a coloro che manifestano un atteggiamento spirituale; non gradisce l’entusiasmo ed ama la tolleranza, fa dell’eleganza il metro per misurare la virtù e dell’igiene quello per valutare la moralità, ritiene che un uomo possa essere eccessivamente religioso, ma mai troppo raffinato. Crede che nessuno possa perdere la propria anima e finire all’inferno, eccetto che per gravissimi e spietati crimini come l’omicidio. In breve, l’indifferenza del mondo include l’assenza di un vero timore di Dio, la mancanza di zelo per la Sua gloria, l’assenza di un odio profondo per il peccato, e nessuna preoccupazione per la salvezza eterna dell’anima. Questa indifferenza è sempre esistita; Nostro Signore ci ha messi in guardia, perché essa sarà presente fino alla fine del mondo: “Come ai giorni di Noè, così sarà alla venuta del Figlio dell’uomo: mangiavano, bevevano, prendevano moglie e marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca. Poi venne il diluvio e li fece perire tutti. Allo stesso modo successe ai tempi di Lot: mangiavano, bevevano, compravano e vendevano, piantavano e costruivano. Ma nel giorno in cui Lot lasciò Sodoma, piovve brace, fuoco e zolfo dal cielo e li fece perire tutti. Così sarà anche nel giorno in cui il Figlio dell’uomo sarà rivelato” (Lc 17,26).

È importante rammentare che quest’indifferenza, nei confronti della propria anima e del conflitto fra il bene ed il male, è totalmente sbagliata. In realtà, perdiamo la nostra anima proprio per il fatto di non opporci attivamente alle forze che ci trascinano verso il basso. Questo principio è valido tanto nell’ordine naturale, quanto in quello spirituale. Cos’è la vita, ad esempio, se non la risultante delle forze che si oppongono alla morte? Cos’è il principio biologico della retromutazione, se non la prova che per negligenza possiamo perderci? Supponiamo che un appassionato di uccelli, mediante abili incroci e un’attenta selezione, abbia prodotto un gruppo di piccioni con un alto livello di perfezione riguardo al colore del piumaggio. Supponiamo inoltre che, dopo averli abbandonati su un’isola deserta, vada a riprenderli dopo molti anni. Si renderebbe conto che i piccioni discendenti dal gruppo originario hanno perso quei colori, che con la sua conoscenza ed abilità aveva conferito ai loro antenati, ritornando così al tipico colore grigio. Ciò che è vero per gli animali, circa la regressione fenotipica, è vero anche per l’uomo. Anch’esso degenera per la semplice trascuratezza e negligenza. Sebbene vi sia in lui un principio spirituale che come una fiamma tende a elevarlo verso il cielo con Dio, c’è in lui anche un qualcosa che lo trascina verso la terra con la bestia. L’uomo è sempre consapevole della dualità della sua natura: del desiderare sempre il meglio, ma di scegliere talvolta il peggio. Questa tendenza degenerativa in lui, cioè la concupiscenza, è la conseguenza del peccato originale; se non viene contrastata dalla natura e dalla grazia, lo conduce a regredire al tipo rappresentato dal primo Adamo, ossia il peccatore. Ne consegue la degenerazione delle facoltà morali ed intellettuali dell’uomo, secondo una legge inesorabile, a causa della negligenza nel combattere quelle forze che lo spingono e lo conducono alla morte spirituale. Per illustrare questo principio, supponiamo che un uomo cada dall’ultimo piano di un altissimo grattacielo. Quando, nella sua caduta, egli oltrepassa uno dei piani inferiori, è ancora vivo; tuttavia, nessuno è così ottimista da ritenere che possa salvarsi, semplicemente perché il germe della morte è già in lui. L’uomo che ha trascurato di prendere le precauzioni necessarie per impedire che il germe della morte si sviluppi in lui, operando in questo senso durante la vita, a causa della sua negligenza deve soccombere. Oppure, supponiamo che un uomo abbia preso del veleno. Mentre questo si fa strada nel suo corpo gli si offre un antidoto. Affinché il veleno sviluppi il suo effetto letale, non è necessario che l’avvelenato getti con violenza l’antidoto fuori dalla finestra o, imprecando contro colui che glielo offre, lo butti contro il muro. Basta soltanto che egli trascuri di utilizzare il rimedio.

Così è anche per la vita morale dell’uomo. Egli perde la sua anima non solo commettendo gravi peccati, ma anche trascurando di corrispondere alle grazie che gli vengono offerte continuamente da Dio, per premunirlo contro il peccato e condurlo all’unione eterna con Lui. Cosa prosciuga il pozzo della contrizione e del pentimento se non l’abbandono della meditazione riguardo la perversità del peccato? Cosa rende la meditazione praticamente impossibile se non l’assenza della preghiera? Cosa fa apparire Dio così lontano ed irreale quanto il non vivere alla Sua Santa Presenza? Cosa trascina l’anima verso l’inferno se non l’assenza del moto contrario, ossia dello sforzo di elevarsi verso il Cielo? Lasciate che un uomo sia contento di se stesso, soddisfatto di ciò che è, allineato ai costumi del mondo, che respiri le esalazioni nocive del male raffinato, permettendo che la sua condotta morale segua le sue naturali tendenze senza controllarle e frenarle. Egli, quasi certamente, si lascerà trasportare, con un moto dolce e tranquillo, dalla corrente del vasto fiume che conduce verso la morte eterna. Dice San Paolo: “Come potremo noi scampare se avremo trascurato una salvezza così grande?” (Eb 2,3).

Perfino in questa vita c’è una terribile punizione per la negligenza, ed è la deformazione, l’atrofia, l’ottundimento di quelle facoltà, che ci sono state conferite proprio per alimentare la vita spirituale. Dio ci ha dato una mente per conoscerlo, una volontà per amarlo, ed un corpo per servirlo. Se queste facoltà corporali e spirituali non sono esercitate elevandole nell’adorazione del Padre, dal quale proviene ogni bene, la natura si prende una terribile vendetta. Ci accade, allora, qualcosa di simile a ciò che si verifica negli animali inferiori, ossia la perdita della capacità di usare tali facoltà e di conseguire i fini per cui esse avrebbero dovuto essere impiegate. C’è un certo consenso, a livello scientifico, sul fatto che la talpa non è sempre stata cieca. Avendo però scelto di vivere sotto terra, senza usare la facoltà della vista, la natura in pratica, come un magistrato giudicante, ha detto alla talpa: “Poiché non usi la facoltà della vista che ti ho dato, te la tolgo, rendendoti cieca!”. Dunque, la punizione per la trascuratezza, è addirittura la perdita delle facoltà ricevute in dono e non esercitate. È questo l’insegnamento che Nostro Signore ci ha rivelato con la parabola dei talenti. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo le sue capacità. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne guadagnò altri cinque. Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Invece, colui che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. Quando il padrone volle regolare i conti con loro, colui che aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque e colui che ne aveva ricevuti due, altri due. Essi furono ammessi alla beatitudine del loro Signore. Ma a colui che aveva ricevuto un solo talento e lo nascose sottoterra, il padrone disse: “Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ne ha dieci” (Mt 25,28). La perdita del talento fu la naturale conseguenza della sua accidia. Come il braccio dell’uomo che non lo esercita mai s’indebolisce progressivamente, perdendo massa muscolare, così le facoltà che Dio ci ha dato, se non vengono utilizzate, regrediscono fino a scomparire: “Perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” (Mt 25,29).

II mondo è pieno di uomini che hanno trascurato i loro talenti, le cui facoltà spirituali per mera indifferenza si sono atrofizzate, che non pensano a Dio più di quanto non s’interessino alla turbolenta situazione politica di un paesino sperduto dell’Africa centrale. L’anelito all’eternità delle loro anime è spento; ogni via verso il Cielo sbarrata; ogni talento ricevuto dissipato; ogni facoltà spirituale, destinata ad orientare al Divino, è talmente rivolta verso le realtà terrene da aver perduto ogni legame con quelle celesti. Ogni giorno trascorso, ogni ora che passa, riduce la loro sensibilità riguardo al vasto regno dello spirito. Diventano insensibili, proprio come il sordo nei confronti dei suoni armoniosi della vita, del rumore di una cascata o della melodia di una canzone; proprio come il cieco di fronte alle bellezze della natura, ai colori di un arcobaleno o al sorriso di un bimbo. Allo stesso modo, queste anime atrofizzate, sono sorde al dolce sussurrare dello Spirito Santo, cieche di fronte alla visione abbagliante di Gesù. Queste anime, che trascurano di ascoltare la Parola di Dio e di fissare lo sguardo su Gesù, sono esattamente quelle di cui parlava Nostro Signore, quando disse: “Pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono” (Mt 13,13). Se allora il castigo per la negligenza e l’indifferenza è così terribile, non dovremmo forse disporci con tutte le nostre energie morali alla battaglia? I più vigilanti devono sentirsi come se non ci fosse un’ora da perdere, simili agli Apostoli nell’Orto degli Ulivi; i più zelanti come se scagliassero la loro freccia con un arco snervato ed indebolito; coloro che anelano maggiormente alla Vita Eterna, come chi deve entrare per la porta stretta e salire per il sentiero ripido e disagevole.

La salvezza non è un passatempo con cui occupare il tempo libero! Quando la mente è stanca e sovraffaticata, ingolfata nelle abitudini del mondo, deve rammentarsi continuamente che la salvezza non è destinata a chi seppellisce i suoi talenti avvolti in un fazzoletto. Lungo tutto il corso della storia si ode l’Appello Divino rivolto a uomini di carattere, affinché intraprendano la lotta, prendano la loro croce e perseverino fino alla fine. Dall’alto dei Cieli, con soavi ispirazioni e copiosa grazia, giunge l’esortazione a sviluppare e perfezionare i doni che il Signore ci ha dato, sempre con il timore che, trascurandoli od usandoli male, ci vengano tolti. Le mani non rimangano inoperose, ma siano abituate a spezzare il pane per il povero, in nome di Cristo. I piedi non restino fermi, ma come il Nazareno, siano sempre pronti a condurci per le vie del mondo a compiere il bene. Lo sguardo non si distragga nel contemplare le bellezze naturali, ma sia rivolto interiormente all’anima, laddove sta la bellezza della figlia del Re. Le orecchie vengano abituate a percepire il delicato sussurro della Santissima Trinità che, prendendo dimora nell’anima in grazia, la rende realmente tempio di Dio. Le mani non siano fiacche, usate solo per frugare in quei tesori che la ruggine consuma, la tignola rode e i ladri rapinano, ma si diano da fare, come quelle della donna emorroissa, per giungere a toccare l’orlo del mantello di Nostro Signore. Il gusto non si limiti ad assaporare il cibo che perisce, ma sia abituato ad apprezzare e gustare il Pane della Vita ed il Vino che genera i vergini. L’olfatto non sia lasciato ottundersi dai raffinati profumi mondani, ma impari a sentire l’odore della santità che effonde ogni anima abitata dalla grazia. Infine, il cuore non sia assorbito dall’amore per ciò che il tempo un giorno ci toglierà, ma sia interamente rivolto a “quell’Amore di cui avvertiamo la mancanza in ogni altro amore, a quella Bellezza che fa apparire ogni altra bellezza dolore“. Insomma, ogni fibra, energia, senso e facoltà, devono essere impiegati per conquistare la corona eterna! Non ci accada per disgrazia che la nostra indifferenza per i doni e le grazie che Dio ci ha offerto, in questi giorni ed in quest’epoca, procuri a Nostro Signore maggiore dolore, tormento e sofferenza della crudeltà di coloro che lo inchiodarono sulla Croce. Come scrisse il poeta inglese G. A. Studdert-Kennedy:

“Quando Gesù salì sul Golgota, Lo inchiodarono ad una croce, enormi chiodi Gli trapassarono le mani ed i piedi, un vero tormento. Gli cinsero il capo con una corona di spine, aprendo ferite profonde da cui scendeva copioso il sangue. Era gente crudele in un tempo di crudeltà, quando ben poco valeva la vita umana. Quando Gesù venne a Birmingham, la gente Gli passava accanto senza degnarlo di alcuna attenzione. Non Gli fecero alcun male, solamente Lo lasciarono morire di fame e di freddo. Gli uomini erano diventati meno crudeli, non Gli avrebbero arrecato alcun dolore fisico, solamente passavano oltre noncuranti, lasciandolo fradicio di pioggia. Ora come in passato, Gesù continua a gridare: Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.”

(Fulton J. Sheen, da “Il Regno di Dio è una sfida: una guida per il Cielo” edizioni Mimep)

PERCHÉ DIO HA CREATO QUESTO MONDO? PERCHÉ PERMETTE IL MALE? “La nostra scelta è quella di obbedire o di ribellarci alla Legge divina”

QUI DI SEGUITO POTETE LEGGERE UN PEZZO DEL TERZO CAPITOLO DAL NUOVO LIBRO DI FULTON SHEEN: “IL REGNO DI DIO È UNA SFIDA. UNA GUIDA PER IL CIELO” EDIZIONI MIMEP.

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Il Regno di Dio è una sfida

Qual è il proposito che Dio aveva in mente nel creare questo genere di mondo?

La risposta, semplicissima, è che Dio intendeva realizzare un universo morale. Da tutta l’eternità, Egli volle dar vita ad un mondo nel quale gli uomini potessero sviluppare un carattere forte e retto. Naturalmente, Egli poteva creare un mondo privo di una dimensione morale, senza virtù, senza uomini dal carattere forte. Un mondo in cui ciascuno di noi sviluppasse le sue virtù come la ghianda si sviluppa per diventare quercia, oppure un mondo in cui ognuno di noi diventasse santo con la medesima e inesorabile necessità mediante cui il sole sorge all’alba o la pioggia cade a bagnare la terra. Dio ci avrebbe potuti creare come pezzi di legno o pietre, guidati dalla stessa necessità per cui il fuoco è caldo e il ghiaccio è freddo. Dio avrebbe potuto fare tutto ciò, ma non l’ha fatto. E non l’ha fatto perché Egli voleva un universo di natura morale, nel quale, usando correttamente del dono della libertà, potessero formarsi uomini dal carattere forte e virtuoso. Che interesse avrebbe avuto Dio nel creare una moltitudine di oggetti sparsi nell’infinità dello spazio, fossero pure diamanti, o un universo popolato di gioielli splendenti come il sole? Che significato avrebbe avuto per Lui quest’armonia esteriore, necessariamente imperturbabile, al confronto di un solo uomo virtuoso che potrebbe intessere sulla trama di una vita apparentemente tormentata, stentata e fallimentare, uno stupendo ricamo di santità e perfezione spirituale? A Dio si presentava la scelta fra il creare un universo puramente meccanicistico, popolato da semplici robot, e un mondo di esseri spirituali, per i quali la scelta fra il bene ed il male fosse in ogni caso una possibilità.

Stabiliamo ora come assodato che Dio abbia scelto di creare un universo morale, cioè un mondo in cui si sarebbero formate persone virtuose. Quale condizione avrebbe dovuto verificarsi per rendere possibile la moralità? Dio, avendo scelto l’opzione di un universo dal carattere morale, doveva rendere l’uomo libero; dotarlo cioè della facoltà di dire “Sì” oppure “No”, di essere artefice e padrone del proprio destino. La moralità implica responsabilità e dovere, ma queste hanno senso solo in un contesto di libertà. Le pietre non hanno una dimensione morale, perché non sono dotate di libertà. Non lodiamo il ferro perché viene riscaldato dal fuoco, né condanniamo il ghiaccio perché si scioglie per il caldo. Lode e disapprovazione, possono essere espresse solo nei confronti di coloro che sono dotati di una volontà libera. Solo l’uomo, nel mondo visibile, ha la possibilità di dire “No”, o di avere tanta gioia nel cuore quando dice “Sì”. Togliete questa libertà interiore a un uomo e non c’è per lui più alcuna possibilità di essere virtuoso, più di quanta ne abbia un filo d’erba di evitare d’essere calpestato da chi vi cammina sopra. Togliete la libertà dalla vita umana e non c’è nessun motivo di onorare la fortezza dei martiri che offrono i loro corpi come incenso a testimonianza della loro fede, più di quanto si onorino le fiamme che li avvolgono nel rogo. Se togliete la libertà all’uomo, cosa resterebbe della sollecitudine verso i bambini affinché impostino bene la loro vita, determinando il proprio eterno destino attraverso una successione di libere scelte? Togliete la libertà all’uomo, facoltà che conferisce alla vita il carattere di un progetto appassionante dalle conseguenze eterne ed irrevocabili, e considerate con quanta indifferenza osserveremo il sipario che si alza su una nuova vita, ma anche con qual modesto rimpianto contempleremo come esso si chiude su una vita che si spegne. Si può, forse, imputare a Dio la colpa di non aver voluto regnare su un universo fatto di semplici sostanze chimiche? Perciò, se Egli ha deliberatamente scelto un universo basato non sulla forza, ma sulla libertà, se prendiamo atto che i Suoi sudditi possano agire contro la Volontà del loro Signore, cosa che le stelle e gli atomi non possono fare, non è forse questa la prova che Egli ha concesso alle creature umane la possibilità di rompere il vincolo di fedeltà che le lega a Sé, affinché abbia senso e sia meritevole di gloria quella medesima fedeltà quando viene scelta e offerta liberamente?

Abbiamo detto che Dio scelse di creare un universo morale, ed anche che Egli poteva fare questo solo a condizione che l’uomo fosse creato libero. Ciò premesso, possiamo rispondere a chi si chiede perché Dio permetta il male. La possibilità del male è in certo qual modo legata alla libertà interiore dell’uomo. Poiché l’uomo è stato reso libero di amare, è altrettanto libero di odiare; reso capace di obbedire, è capace pure di ribellarsi; abbastanza libero da ricevere lode per la sua bontà, è pure tale da essere biasimato per la sua malvagità. Nel presente ordine concreto, la virtù è possibile solo in un contesto in cui si possa essere viziosi; il sacrificio è possibile solamente laddove si possa essere egoisti; la redenzione è concepibile solo in una realtà dove si possa essere schiavi. Il mondo non conosce eroi, se non in quelle battaglie in cui ogni eroe avrebbe potuto essere un codardo. Una Nazione non ha patrioti, eccetto che in quei contesti dove ogni patriota avrebbe potuto comportarsi da traditore; la Chiesa non ha santi, se non all’interno di quel mondo in cui ciascuno di loro avrebbe potuto vendere il cuore al demonio. L’arco di trionfo viene eretto solo per coloro che, avendo avuto successo nella prova, sarebbero potuti soccombere. Statue sono scolpite soltanto per chi, pur potendo compiere nefandezze, fece invece cose grandi; monumenti sono eretti solo per perpetuare il ricordo di uomini che, pur potendo volgersi indietro, resistettero andando avanti. Eliminando il pericolo e l’incertezza dalla vita umana, dove sarebbero l’eroismo e la fede? Se non ci fossero l’afflizione e la malattia, dove sarebbero la consolazione e il sacrificio? Nessuno sguardo amorevole e protettivo si posa su chi è invulnerabile; nessuna corona viene posta sul capo di coloro che non combattono. Tutti potrebbero andare in battaglia o accingersi da soli in un’ardua impresa ed essere dimenticati, senza nessuno che sia felice per il loro trionfo o angosciato per la loro sconfitta. Un mondo senza rischio, senza incertezza, non potrebbe avere né eroi né santi. Come non può esserci un’epopea della certezza, né una lirica senza il timore della sofferenza e il grido della paura, così non può esistere moralità nel presente ordine delle cose senza la possibilità del male, e non possono esserci santi se non perché ciascuno può potenzialmente diventare un Giuda.

Se, dunque, la possibilità del male è in certo qual modo intrinseca all’esercizio della libertà interiore dell’uomo, è evidente l’assurdità di condannare Dio perché tollera il male. Quanta gente dice: “Se io fossi Dio, toglierei immediatamente dal mondo ogni ingiustizia ed ogni sorta di male!”. Esigere questo, però, significa pretendere che Dio contraddica Se stesso: è come se Egli creasse un essere libero di optare fra il bene ed il male, ma, allo stesso tempo, lo obbligasse a scegliere il bene. Esigere che Dio crei l’uomo libero di scegliere fra il giusto e l’ingiusto, obbligandolo tuttavia a scegliere sempre e solo il giusto, rappresenta decisamente un’assurdità. Come, per la stessa natura delle cose, è impossibile che Dio possa crearmi ed al contempo non crearmi, farmi esistere e non farmi esistere, così, per la stessa ragione, è impossibile per Lui crearmi come un essere libero ed al contempo schiavo. Neppure Dio può agire in modo da contraddire la propria natura; ciò non va inteso nel senso che è posto un limite alla Sua onnipotenza, al Suo potere di agire al di fuori di Se stesso, ma perché la Sua natura è Giustizia per essenza. Perciò, coloro che vogliono condannare Dio per aver concesso all’uomo la facoltà di ostacolare e compromettere la Sua opera, sono come quei genitori che, rilevando macchie d’inchiostro, strafalcioni, errori grammaticali e sintattici nel compito di uno scolaretto, vogliono rimproverare il maestro per non avergli tolto di mano il quaderno e aver fatto lui stesso il compito. Come la funzione del maestro è quella di fornire una solida istruzione, non compiti ben fatti e senza errori, così Dio si prefigge di far progredire spiritualmente le anime, non la fabbricazione di entità biologiche, per quanto perfette possano essere. Qui troviamo anche la risposta per coloro che affermano: “Se Dio sapeva che avrei peccato, perché mi ha creato ugualmente?”. La risposta è semplice; nella misura in cui io sono peccatore, Dio non mi ha creato, mi sono creato da me stesso: sono un essere che, in quanto peccatore, deve la creazione a se stesso. Dio mi ha dato il potere di essere ciò che avrei voluto essere, un essere virtuoso o vizioso; il successo od il fallimento nel conseguire quella santità, che Dio da sempre ha voluto per me, stanno nelle mie mani, così come mia è la responsabilità del risultato.

Poiché l’universo è di natura morale, ne consegue che, in termini assoluti, la scelta che ci si presenta davanti è quella di obbedire o di ribellarci alla Legge divina.

Se tu scegli di ribellarti nei confronti di questa Legge, come se tu fossi tua proprietà e Cristo non ti avesse riscattato con il Suo Sangue, allora dovrai eternamente essere relegato fra i morti. Non sarà per te la gloria della visione beatifica, non la ricca benedizione di Colui che riporta l’anima immersa nell’errore sulla retta via. Non avrai l’amore incrollabile per il bene, anche quando è ostacolato e combattuto, né il disprezzo costante per il male anche quando è esaltato; avrai invece la frivola insipienza di bassi ed inconfessabili piaceri, una personalità opaca e malcontenta, ignobile in compagnia, sconsolata nella solitudine. Grandi cose verranno compiute, ma tu non vi prenderai parte; profonde verità verranno proferite, ma esse non avranno eco nella tua coscienza anestetizzata e nel tuo cuore indurito. La solenne processione di coloro che possiedono nobili virtù e profonda saggezza ti oltrepasserà, senza che tu possa esserne partecipe. Se scegli di offendere Dio, per quanto tu possa avere successo, essere onorato, arricchirti, ottenere lode dal mondo, venendo considerato una persona di grande apertura mentale e progressista, per quanto tu abbia vasta notorietà e segua una morale aggiornata, adatta al tempo presente, non saprai mai quello che hai perso, come Barabba non seppe mai quanto grande fu la sua disgrazia nel giorno in cui gustò il suo apparente successo. Morirai, sarai privato della Vita di Cristo – la Grazia – e morto all’Amore Divino, privato per sempre dell’Eterna Beatitudine!

Se, al contrario, obbedisci alla Legge divina, vivendo come deve vivere colui che è realmente destinato alla vita oltre la morte, la battaglia in cui l’amore di Dio deve imporsi e sottomettere l’amor proprio potrà essere aspra per la breve durata della vita terrena; ogni albero potrà essere per te una croce, ogni arbusto una corona di spine, ed ogni amico un Giuda. Potrai essere povero su questa terra, privo di consolazioni come lo fu il Falegname di Nazareth, colmo di amarezza così che ogni giorno ti porga un nuovo calice di passione, pieno dell’angoscia del Getsemani; potrai essere così abbandonato da non trovare neppure una Veronica che ti deterga il viso dalle lacrime, disprezzato e deriso da un mondo tenebroso che non accoglie la luce. Sarai considerato un fallito, accusato di nutrire sogni insensati, di essere un folle; tuttavia, nella terra arida che è il mondo, ti nutrirà la Manna inviata dal Cielo e berrai alla fontana della Vita Eterna… e tu sarai vivo! Vivo con Cristo, vivo nello spirito! Avrai la vita vera, quella divina, e se Dio sarà la tua Vita, chi mai potrà togliertela?

(Fulton J. Sheen, da “Il Regno di Dio è una sfida: una guida per il Cielo” edizioni Mimep)

Perché l’uomo moderno non trova Dio? “Il Divino è sempre dove meno ti aspetti di trovarlo”

QUI DI SEGUITO POTETE LEGGERE IL PRIMO CAPITOLO DEL NUOVO LIBRO DI FULTON SHEEN: “IL REGNO DI DIO È UNA SFIDA. UNA GUIDA PER IL CIELO” EDIZIONI MIMEP.

Il libro uscirà nelle librerie il 10 Aprile, ma si può già acquistare sul sito della casa editrice Mimep delle suore, dove si trova anche l’anteprima scaricabile in PDF. Qui il link per l’acquisto 👇

1. UN SENZATETTO A CASA SUA: GESÙ BAMBINO

“La conoscenza della vita morale presuppone la rimozione di ogni pregiudizio. Non tutto ciò che è nuovo, è anche vero; ciò che viene chiamato moderno, può essere solo una nuova definizione per un antico errore. Il Divino, che è la base della vera moralità, è spesso dove meno ci si aspetta di trovarlo.”

Ogni artista ha la sensazione di essere a casa nel suo studio, così come ogni patriota nel proprio paese, e ogni uomo nella sua abitazione. Ci si dovrebbe quindi aspettare che il Creatore si senta a casa nella Sua stessa creazione, che Dio trovi accoglienza nel mondo che ha fatto. Eppure, il fatto più sorprendente della storia umana, è che quando Dio venne sulla terra fu un senzatetto a casa Sua. “Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto” (Gv 1,11). Prima ancora che il Verbo fatto carne venisse alla luce, Maria e Giuseppe cercarono invano un luogo dove potesse nascere Colui al quale appartengono i cieli e la terra. E così, quando la storia umana avrà scritto la sua ultima parola sulle pergamene del tempo, la frase più triste di tutte sarà: “Non c’era posto per loro nell’albergo” (Lc 2,7). C’era posto nell’albergo per quanti recavano sul petto le insegne imperiali romane, per le figlie dei ricchi mercanti d’Oriente, per tutti coloro che indossavano sontuose vesti di porpora e abiti eleganti; c’era posto per chiunque, tranne per il padre putativo e la madre di Colui che stava portando la Redenzione nel mondo. Perciò, dovettero vagare lontano dall’albergo, fuori nella stalla, in una spoglia grotta dove i pastori guidavano le loro greggi durante le tempeste. In quel piccolo rifugio, con le bestie della mangiatoia come compagne, all’incrocio fra le tre grandi civiltà di Menfi, Atene e Roma, accadde qualcosa – l’unico fatto davvero importante che avvenne nel mondo: il Cielo discese sulla terra e il grido di Dio si manifestò nel vagito di un Bambino.

Un paradosso davvero sorprendente! Quando Dio venne sulla terra non c’era posto nell’albergo, ma ci fu posto nella stalla. Quale lezione si nasconde dietro l’albergo e la stalla? Che cos’è l’albergo, se non il luogo di ritrovo dell’opinione pubblica, la sede degli umori del mondo, la residenza degli uomini mondani, il luogo di raduno della gente alla moda e di chi conta nella gestione degli affari e della vita pubblica? Che cos’è la stalla se non il luogo degli emarginati, il rifugio per le bestie, il riparo dei miserabili, il simbolo di chi agli occhi dell’opinione pubblica non conta nulla, di chi può essere ignorato perché considerato di nessun grande valore o importanza? Qualunque uomo di mondo avrebbe pensato di trovare il Divino in un albergo, ma nessuno di trovarlo in una stalla. Infatti: “Il Divino è sempre dove meno ti aspetti di trovarlo”.

Se in quei giorni le stelle del cielo, per un tocco di magia, si fossero unite insieme, formando parole d’argento, e avessero annunciato la nascita dell’Atteso dalle Nazioni, dove sarebbe andato il mondo a cercarlo? Il mondo avrebbe ricercato il Bambino in qualche palazzo affacciato sul Tevere, in qualche dimora dorata di Atene o in qualche albergo di una grande città dove si riunivano i ricchi, i potenti ed i grandi della terra. Non sarebbero stati minimamente sorpresi di trovare il neonato – il Re dei re – disteso su una culla d’oro, circondato da principi e filosofi che gli rendevano omaggio e obbedienza. Ma sarebbero stati assai sorpresi di scoprirlo in una mangiatoia, adagiato sulla ruvida paglia, riscaldato dal fiato di un bue e un asinello, per espiare la freddezza del cuore degli uomini. Nessuno si sarebbe immaginato che Colui, le cui dita possono fermare il moto di un pianeta, sarebbe stato più piccolo della testa di un bue; che Colui, il quale ha scagliato il sole nei cieli, sarebbe stato un giorno riscaldato dal fiato delle bestie; che Colui, il quale può farsi una tettoia con le stelle dello spazio, sarebbe stato protetto da un cielo tempestoso sotto il tetto di una stalla; che Colui, il quale aveva fatto della terra la Sua futura dimora, sarebbe stato un senzatetto nella propria casa. Nessuno si sarebbe aspettato di trovare il Divino in questa condizione, ma andò proprio così, perché: “Il Divino è sempre dove meno ti aspetti di trovarlo”.

Mi chiedo se non sia questa la ragione per cui il mondo moderno non è capace di trovare il Divino. Non c’è dubbio che Lo stia cercando, se non altro perché sente la propria insufficienza, e desidera un Dio che gli offra il perdono per i suoi peccati e il balsamo per curare le sue ferite. Cerca una Divinità che lo liberi dalla terribile inquietudine e dal vuoto della vita. Ma dove cerca il Divino? Lo cerca nei quartieri eleganti, negli alloggi signorili, nei palazzi dei potenti, laddove domina la pubblicità, la propaganda, il successo, la popolarità e la modernità. Il mondo moderno cerca il Divino e la soluzione ai propri mali nei miti del superuomo di H. G. Wells, nell’umanesimo di Irving Babbitt, nel pansessualismo di Sigmund Freud, nel cinismo di Bertrand Russell, nel naturalismo delle religioni moderne, nel libro del mese, nel Cristo reinterpretato a piacimento, nella nuova morale, nella nuova psicologia, nella nuova scienza, ma in nessuno di questi posti si trova il Divino. Come non fu trovato negli alberghi di duemila anni fa, così non si troverà in quelli del secolo presente, perché ciò che fu vero per il primo giorno rimane vero per il nostro: “Il Divino è sempre dove meno ti aspetti di trovarlo”.

Supponiamo ora di suggerire al mondo moderno che il Divino da esso ricercato, possa essere trovato unicamente nella Chiesa; supponiamo di far intendere a tutti i ricercatori del Divino che la verità da essi desiderata, possa trovarsi solo nel Papa, il vicario di Cristo, il quale come successore di Pietro espone fedelmente l’insegnamento di Cristo; supponiamo di annunciare a tutti che la Vita Divina cui il mondo anela, scaturisca soltanto dalla fontana dei Sette Sacramenti; che il perdono da esso implorato, discenda dalla mano sollevata di un sacerdote nel confessionale; che solamente attraverso l’insegnamento della Chiesa sul matrimonio può preservarsi integra la struttura della società, e solo nella morale della Chiesa può essere riconquistata la virtù personale. Supponiamo, ancora, che oggi al mondo moderno venga detto: “Betlemme è sempre presente e continua fino ai nostri giorni perché, per un sublime miracolo dell’amore di Dio, la stalla è ora il tabernacolo, la mangiatoia è ora il ciborio, la paglia è ora nei fiori dell’altare, le fasce che avvolsero Gesù Bambino sono ora le bianche specie del pane, e il Corpo e il Sangue, l’Anima e la Divinità di Cristo, vivono tra noi in quel tabernacolo proprio come nella culla di Betlemme”. Supponiamo, dunque, che un tale annuncio stupefacente sia fatto ai giorni della nostra epoca – un annuncio tanto vero, quanto sorprendente!

Ma quale sarebbe la risposta del mondo moderno? Risponderebbe così: “Questo è assurdo! La Chiesa è antiquata, medioevale, in ritardo coi tempi; è ignorata da tutto il mondo accademico; i suoi dogmi sono dei miti; la sua morale è superata; la sua fede nella Presenza Reale di Cristo sull’altare è assolutamente inammissibile! Perché mai Nostro Signore dovrebbe vivere sotto i veli delle specie eucaristiche del pane? Perché si dovrebbe cercare la Verità in ciò che il mondo ignora? Nessuno oggi pensa mai di andare in Chiesa alla ricerca del Divino”. Ma questo è esattamente ciò che il mondo pensò duemila anni fa. A nessuno venne mai in mente di andare in una stalla alla ricerca della Verità e della Vita, cioè del Figlio di Dio. Eppure è proprio là che l’avrebbero trovato, poiché: “Il Divino è sempre dove meno ti aspetti di trovarlo”. Il mondo ha sempre mancato l’incontro con il Divino, o per averlo cercato nei posti sbagliati o per non averlo riconosciuto pur avendolo incontrato. Ha cercato il Divino nel potere, nella popolarità, nel progresso, nella scienza; ha sempre ignorato la possibilità di trovarlo nella semplicità, nell’imprevisto, nella sconfitta e nella fragilità. Eppure, il segno del Divino sarà sempre quello di un’apparente debolezza: “Questo sarà per voi il segno: troverete un Bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia “ (Lc 2,12). Il mondo ha sempre ricercato il Divino nella grandezza di una Torre di Babele, ma mai nella piccolezza di una Betlemme; negli alberghi altolocati dell’opinione pubblica, ma mai nelle stalle ignorate dei dimenticati; nelle culle d’oro, ma mai nelle culle di paglia; l’ha sempre cercato nella forza, ma mai nella debolezza. Tuttavia, il Divino è venuto nel mondo come un Bambino bisognoso in una mangiatoia, ed ha lasciato il mondo come un Uomo indifeso sulla Croce. Se vogliamo perciò trovare Dio, dobbiamo cercarlo nella debolezza e nella sconfitta, ma una debolezza che nasconde in sé la potenza e una sconfitta che si manifesterà come vittoria. Dio sarà trovato solo da coloro che cantano l’inno dei vinti, da quanti Lo cercano nelle stalle dimenticate e fra le ignobili croci. Questa lezione fondamentale dell’incarnazione dev’essere sempre ricordata, mentre si svolge il grande dramma della morale cristiana.

Nei capitoli seguenti saranno trattati vecchi temi, ma sempre validi, tra i quali: Dio come fondamento della moralità, la necessità della mortificazione, la bellezza della vita religiosa, la santità del matrimonio, la realtà del peccato, la necessità della Redenzione, il giudizio di Dio dopo la morte, l’esistenza dell’inferno e la gioia della sconfitta; cioè tutti i pilastri dell’edificio morale cristiano, ormai così a lungo dimenticati da potersi ritenere delle novità al giorno d’oggi. Sono tutte verità senza casa, perché gli alberghi del mondo moderno le respingono; tutte verità senzatetto, perché pochi le accolgono nel cuore; tutte massime senza fissa dimora, perché sono le benvenute solo per chi il mondo ignora e disprezza; tutti doni non graditi e rifiutati, come lo fu il Bambino di Betlemme. Il mondo, non si aspetta certo di trovare Dio in una tale morale senza fissa dimora, ma il Divino è sempre dove meno ti aspetti di trovarlo, e come scrisse G. K. Chesterton: “Solo dove Lui era senzatetto, voi ed io ci sentiamo a casa”.

(Fulton J. Sheen, da “Il Regno di Dio è una sfida: una guida per il Cielo” edizioni Mimep)

DAL NUOVO LIBRO DI FULTON SHEEN: LA GRANDE LEZIONE DEL GIORNO DI PASQUA. “Il mondo ebbe torto e Cristo ebbe ragione…E’ meglio essere sconfitti agli occhi del mondo”

UNA BELLISSIMA MEDITAZIONE SULLA PASQUA DAL NUOVO LIBRO DI FULTON SHEEN: “IL REGNO DI DIO È UNA SFIDA. UNA GUIDA PER IL CIELO”

Il libro uscirà nelle librerie il 10 Aprile, ma si può già acquistare sul sito della casa editrice Mimep delle suore, dove si trova anche l’anteprima scaricabile in PDF. Qui il link per l’acquisto 👇

Il mondo ebbe torto e Cristo ebbe ragione. Colui che aveva il potere di offrire la propria vita aveva anche il potere di riprenderla di nuovo; Colui che volle nascere nella carne, volle anche morire; Colui che sapeva come sarebbe morto, sapeva anche come sarebbe risorto per dare a questo minuscolo e misero nostro pianeta un onore ed una gloria che astri fiammeggianti e Pianeti gelosi non condividono: la gloria dell’unica tomba lasciata vuota.La grande lezione del giorno di Pasqua consiste nel fatto che un Vincitore può essere considerato sotto un duplice punto di vista: quello del mondo e quello di Dio. Secondo il mondo, Cristo quel Venerdì Santo fu sconfitto, secondo Dio Egli fu vincitore. Coloro che lo condannarono a morte gli offrirono proprio l’occasione di cui Egli aveva bisogno, coloro che chiusero con la pietra il sepolcro, gli offrirono proprio la porta che Egli desiderava spalancare; il loro apparente trionfo aprì la strada alla Sua suprema vittoria. II Natale ha insegnato che il Divino sta sempre dove il mondo meno se lo aspetta; poiché nessuno si attendeva di trovarlo avvolto in fasce e posto in una mangiatoia. La Pasqua conferma la lezione ripetendo che il Divino sta sempre dove il mondo meno se lo aspetta; poiché nessuno fra quelli del mondo si attendeva che uno sconfitto sarebbe stato il vincitore, che la pietra scartata dai costruttori sarebbe divenuta testata d’angolo, che Colui che era morto, sarebbe ritornato a camminare e che, ignorato, posto in un sepolcro, sarebbe diventato la nostra Risurrezione e la nostra Vita.

Nel giorno di Pasqua, io non intono il canto dei vincitori, ma quello di coloro che hanno subito la sconfitta:

«Io canto l’inno dei vinti, quelli che caddero nella battaglia della Vita, l’inno dei feriti, dei battuti, che perirono soccombendo nella mischia. Non il canto di giubilo dei vincitori, per i quali risuona l’acclamazione elevata in coro dalle nazioni, di quelli con la corona della gloria terrena sulla fronte, ma l’inno dei miseri, degli umili, degli esausti, di quelli dal cuore spezzato, che lottarono e persero, facendo con coraggio la loro parte, silenziosa e senza speranza; la loro gioventù non fu ricca di fiori, le loro speranze finirono in cenere, dalle loro mani sfuggì il bottino che cercavano di afferrare, al loro tramonto stavano fra i cocci della loro vita sparsi attorno, senza ricevere da nessuno compassione o attenzione, soli ed abbandonati. La morte spazzò via il loro fallimento, tutto venne travolto eccetto la loro fede. Mentre il mondo, in coro, innalza il suo elogio a coloro che hanno vinto, mentre la tromba, tenuta alta nella brezza ed al sole suona trionfante, mentre le bandiere sventolano, scrosciano applausi e ci si affretta dietro ai vincitori, cinti d’alloro, io rimango nel campo dei vinti, nell’ombra, con i caduti, i feriti, gli agonizzanti, là recito sottovoce un requiem, gli poso le mie mani sulla loro fronte contratta dalla sofferenza, innalzo sommessamente una preghiera, tengo la mano impotente e sussurro: “Otterranno la vittoria solo coloro che hanno combattuto la buona battaglia, che hanno sbaragliato il demone che li tentava nel loro intimo, che hanno conservato la fede rifiutando di farsi sedurre da quei beni che il mondo stima così tanto; che, per una causa superiore, hanno osato soffrire, resistere, combattere e, se necessario, morire”. Parla, o Storia! Chi sono i vincitori nella battaglia della Vita? Scorri i tuoi annali e di’, sono quelli che il mondo chiama vincitori che conquistarono il successo effimero di un giorno? Sono i martiri o Nerone? Gli Spartani, caduti alle Termopili? O i Persiani e Serse? I suoi giudici o Socrate? Pilato o Cristo?». 

Srotola le pergamene del tempo ed osserva come la lezione di quella prima Pasqua Cristiana si ripete, quando, ad ogni celebrazione della Pasqua si raccontano le vicende del grande Condottiero che è uscito dal sepolcro per rivelare che la vittoria finale, quella definitiva, deve sempre essere intesa come sconfitta agli occhi del mondo. Almeno una dozzina di volte nel corso della sua storia bimillenaria, il mondo nell’impeto di un effimero trionfo, ha posto la pietra a sigillo sul sepolcro della Chiesa, vi ha posto la guardia e l’ha considerata come morta, esausta, sconfitta, solo per vederla risorgere vittoriosa nell’aurora della sua Pasqua. (…)

Infine la Pasqua ci offre una lezione che riguarda la nostra stessa vita.E’ meglio essere sconfitti agli occhi del mondo seguendo la voce della propria coscienza piuttosto che essere vincenti secondo la falsa opinione del mondo; è meglio essere vinti nella santità del vincolo matrimoniale che ottenere l’effimera vittoria del divorzio; è meglio essere vinti in mezzo a tanti figlioli, frutti dell’amore, che vincenti in un’unione volutamente sterile; è meglio essere vinti dall’amore della Croce, che conseguire l’effimera vittoria del mondo che mette in croce. In conclusione è meglio essere sconfitti agli occhi del mondo dando a Dio ciò che è interamente e assolutamente nostro. Se diamo a Dio la nostra energia, Gli restituiamo un Suo dono; se Gli diamo i nostri talenti, le nostre gioie, i nostri beni, Gli rendiamo ciò che Egli mise nelle nostre mani non per esserne proprietari, bensì semplici amministratori.Una sola cosa c’è al mondo che possiamo definire veramente nostra, la sola che possiamo dare a Dio, che è nostra invece che Sua, la sola che Egli non ci toglierà mai; questa cosa è la nostra volontà col suo potere di scegliere l’oggetto del suo amore. Quindi il dono più perfetto che possiamo offrire a Dio è quello della nostra volontà. Agli occhi del mondo, donarla a Dio è la suprema sconfitta che possiamo subire, ma è anche la suprema vittoria che possiamo conseguire agli occhi di Dio. Nel cedergliela ci sembra di perdere tutto, la sconfitta però è il seme della vittoria. La rinuncia alla propria volontà conduce a ritrovare tutto ciò che la volontà abbia mai cercato, la perfezione della Vita, della Verità, dell’Amore, cioè Dio.

E così, nel giorno di Pasqua non cantare l’inno del vincitore, ma quello del perdente. Cosa importa se la strada, in questa vita, sia ripida e disagevole, se la povertà di Betlemme, la solitudine della Galilea, le sofferenze della Croce siano il nostro pane? Mentre combattiamo, santamente ispirati da Colui che ha conquistato il mondo, perché mai dovremmo trattenerci dal manifestare la nostra sfida di fronte all’ipocrisia del mondo? Perché temere di estrarre la spada e assestare il primo colpo mortale al nostro egoismo? Marciando sotto la guida del Condottiero dalle cinque Piaghe, fortificati dai Suoi Sacramenti, resi incrollabili dal Suo essere Verità infallibile, divinizzati dal Suo Amore redentivo, non abbiamo alcun timore circa l’esito della battaglia della vita; nessun dubbio sull’epilogo della sola lotta che conta; nessun bisogno di chiederci se saremo vincitori o perdenti. Perché? Perché abbiamo già vinto – solo che la notizia non è ancora trapelata! 

(Fulton J. Sheen, da “Il Regno di Dio è una sfida: una guida per il Cielo” edizioni Mimep)

Il Regno di Dio è una sfida

“IL REGNO DI DIO È UNA SFIDA” UN NUOVO LIBRO CAPOLAVORO DI FULTON SHEEN

Ringraziamo le suore della casa editrice Mimep di Milano, per la nuova pubblicazione di un testo inedito di Fulton Sheen, tradotto per la prima volta in italiano: “Il Regno di Dio è una sfida. Una guida per il Cielo”.

Il libro uscirà nelle librerie il 10 Aprile, ma si può già acquistare sul sito della casa editrice Mimep delle suore, dove si trova anche l’anteprima scaricabile in PDF. Qui il link per l’acquisto 👇

La Prefazione è di Padre Angelo Bellon, sacerdote domenicano, curatore del sito Amici Domenicani e della famosa rubrica “Un sacerdote risponde”.

Dalle prime righe della prefazione:

“Iniziando la lettura dei 15 capitoli che compongono questo libro di Mons. Fulton Sheen, si avverte subito una sensazione particolare: è come se si venisse introdotti in un corso di esercizi spirituali. Ogni capitolo costituisce una meditazione che mette a fuoco alcune verità fondamentali della nostra esistenza. Dall’inizio alla fine, in maniera più o meno intensa, si avverte la consapevolezza di non trovarsi solo di fronte a verità pur importanti per la vita di ogni uomo, ma dinanzi a Dio stesso che parla all’anima. Proseguire nella lettura di queste pagine è come fermarsi e mettersi in ascolto di Dio che getta luce nella profondità della nostra esistenza, per illuminarla e orientarla. Non si è abituati alla lettura di un testo come questo. Ma si avverte subito che è una grazia averlo tra le mani. Non di rado capita di dire a se stessi: devo rileggere questo capitolo perché è troppo prezioso per la mia vita.” (Padre Angelo Bellon)

Dalla quarta di copertina:

Una nuova traduzione delle meditazioni del grande arcivescovo americano Fulton Sheen. In questo volume l’autore sviluppa il tema del Regno di Dio attraverso gli elementi essenziali del cristianesimo e della vita morale. Di fronte alla chiamata di Dio, siamo invitati ad accettare la sfida e a rinunciare a tutto ciò che ci allontana dal Regno.
I temi trattati: Dio come fondamento della moralità, la necessità della mortificazione, la bellezza della vita religiosa, la santità del matrimonio, la realtà del peccato, la necessità della Redenzione, il giudizio di Dio dopo la morte, l’esistenza dell’inferno e del purgatorio.

“Il Divino è sempre dove meno ti aspetti di trovarlo. È venuto nel mondo come un Bambino bisognoso in una mangiatoia, ed ha lasciato il mondo come un Uomo indifeso sulla Croce. Se vogliamo perciò trovare Dio, dobbiamo cercarlo nella debolezza e nella sconfitta, ma una debolezza che nasconde in sé la potenza e una sconfitta che si manifesterà come vittoria”. (Fulton Sheen)

INDICE:

PREFAZIONE – 1. UN SENZATETTO A CASA SUA: GESÙ BAMBINO – 2. IL SINAI INTERIORE: LA COSCIENZA – 3. L’EMERGENZA: IL GRANDE DRAMMA DELLA MORALE – 4. IL CASTIGO PER LA NEGLIGENZA: LA PARABOLA DEI TALENTI – 5. MORIRE PER VIVERE: LA MORTIFICAZIONE – 6. ROSE NEL GIARDINO DI DIO: LA VITA RELIGIOSA – 7. FINCHÉ MORTE NON CI SEPARI: LA VITA MATRIMONIALE – 8. I LEGAMI DI ADAMO: DIFFICOLTÀ E RIMEDI NEL MATRIMONIO – 9. IL FRUTTO DELL’AMORE: I FIGLI – 10. LA MORTE DELLA VITA: IL PECCATO – 11. LA RESA DEI CONTI: IL GIUDIZIO DI DIO – 12. LE FIAMME PURIFICATRICI: IL PURGATORIO – 13. IL RIFIUTO DELL’AMORE: L’INFERNO ETERNO – 14. IL PARADOSSO DELLA SALVEZZA: IL SACRIFICIO – 15. L’INNO DEI VINTI: IL GRIDO DI BATTAGLIA DEL CRISTIANO.

Il libro uscirà nelle librerie il 10 Aprile, ma si può già acquistare sul sito della casa editrice Mimep delle suore, dove si trova anche l’anteprima scaricabile in PDF. Qui il link per l’acquisto 👇

I CATTOLICI TIEPIDI CHE CERCANO COMPROMESSI CON IL MONDO E NEGANO LA FEDE: “I veri discepoli di Cristo sono agli antipodi della mentalità del mondo”

UN ESTRATTO DAL NUOVO LIBRO DI FULTON SHEEN “IL PIANTO DEL CRISTO”. UN’ANTOLOGIA IMPERDIBILE.

Il libro è appena uscito e si può acquistare sul sito della casa editrice Mimep delle suore. Qui il link: 👇

Il pianto del Cristo

Il secondo tipo di anime che possono trovare un aiuto nella prima parola sulla Croce sono coloro che, pur avendo il grande dono della fede, si lasciano influenzare dal mondo e negano o nascondono la propria fede. Stiamo parlando di quei cattolici un po’ pavidi che dicono: “Certo che ho mangiato la carne alla festa di venerdì scorso. Non vorrai che mi faccia ridere dietro?”. Oppure “Sì, ho iscritto mio figlio ad un college non cattolico. Sono più aperti, sai, e mi darebbe fastidio farlo studiare con i figli dei poliziotti”. Oppure “Quando in ufficio tutti ridevano della Messa, non ho detto che sono cattolico, il capo è fortemente anticlericale, non posso rischiare di perdere il posto”. Sicuramente, cattolici senza spina dorsale come questi avrebbero una vita più facile se rinunciassero alla fede. Gli uomini d’affari potrebbero farsi meno scrupoli nel fregare la concorrenza; le passioni giovanili troverebbero più facile sfogo; i mariti potrebbero avere una seconda moglie; le mogli un terzo marito; mogli e mariti potrebbero concedersi tutti i lussi che vogliono, senza preoccuparsi di risparmiare in vista della futura crescita della famiglia; i politici aumenterebbero i loro consensi se non fosse evidente la loro matrice cattolica; gli avvocati potrebbero fare più soldi, se non dovessero confessare i loro peccati e porvi rimedio; i medici sarebbero più ricchi se fossero meno coscienziosi e preoccupati della Giustizia divina. Non ci sono dubbi: la vita dei cattolici nel mondo sarebbe più facile se fossero “un po’ meno cattolici”. Non c’è una sola frase nella predicazione di nostro Signore che prometta che il mondo ci amerà di più perché credenti. Al contrario, c’è una lunga sfilza di passaggi che prevedono che il mondo ci odierà perché siamo Suoi:

– Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma vi ho scelti io dal mondo, per questo il mondo vi odia. (Gv 15, 19) – Perciò chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli. …chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. (Mt 10, 32–33; 38–39) – Quanto stretta è la porta e angusta la via che conduce alla vita, e pochi sono quelli che la trovano! (Mt 7, 14) – Chi si vergognerà di me e delle mie parole davanti a questa generazione adultera e peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi. (Mc 8, 38) – Se perseveriamo, con lui anche regneremo; se lo rinneghiamo, lui pure ci rinnegherà. (2Tm 2, 12) – E se la tua mano destra ti è motivo di scandalo, tagliala e gettala via da te: ti conviene infatti perdere una delle tue membra, piuttosto che tutto il tuo corpo vada a finire nella Geènna. (Mt 5, 30)

I veri discepoli di Cristo sono agli antipodi della mentalità del mondo: i puri di cuore verranno derisi dai seguaci di Freud; i miti saranno dileggiati dai marxisti; gli umili saranno calpestati dai giovani rampanti; i Sadducei-liberal li chiameranno reazionari; i Farisei-reazionari li chiameranno liberal. Nostro Signore ha insegnato: “Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi.” (Mt 5,11). Tutti questi cattolici che cercano il compromesso sono invitati a mettere in pratica la fortezza del nostro Salvatore sulla croce, che, incurante della morte, per redimerci, ci ha insegnato a non curarci del disprezzo del mondo pur di giungere alla nostra redenzione. Non dobbiamo dimenticare le parole di nostro Signore: “Chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10, 33). E se i cattolici non sono abbastanza forti nell’amore per Cristo, perché si vergognano di Lui, allora che almeno siano forti per paura dello scandalo, perché si vergognano della propria pavidità. Il cattivo esempio dato dai cattolici è spesso usato come scusa per giustificare il male. Perché il mondo si scandalizza di più davanti ad un cattivo cattolico che non davanti ad un qualsiasi altro cattivo? Perché la caduta di un cattolico è commisurata all’altezza degli standard che si propone. La fortezza di cui parliamo è fortezza morale, non prevaricazione, è la fortezza che ci permette di dichiarare la nostra fede in Dio anche davanti ai nemici che ci hanno inchiodato sulla croce del disprezzo, la stessa fortezza di Eleazar che, davanti all’ordine di Antioco che lo obbligava a mangiare carni proibite dal giudaismo, a chi gli consigliava di fingere di cedere, rispose “Non è affatto degno della nostra età fingere… Infatti, anche se ora mi sottraessi al castigo degli uomini, non potrei sfuggire, né da vivo né da morto, alle mani dell’Onnipotente.” (2 Mac 6, 24;26).

Il terzo tipo di anime a cui la prima parola sulla croce può ispirare una maggiore fortezza, comprende coloro che sono convinti della verità, ma non vogliono pagarne il prezzo. La conversione implica pagare un prezzo, e il prezzo è il disprezzo del mondo. Molte anime rimangono bloccate tra la convinzione che quello che predica la Chiesa è vero e la certezza che aderirvi significa farsi dei nemici. Una volta varcata la soglia della Chiesa, queste persone si trovano circondati da una certa ostilità, là dove prima c’era un clima di amicizia. Ci sarà chi li accusa di essere impazziti, potrebbero perdere il lavoro; gli amici, fermi sostenitori della libertà di coscienza, potrebbero voltar loro le spalle proprio perché hanno liberamente seguito la propria coscienza. Alcuni li prenderanno in giro per la loro frequentazione delle funzioni, considerate pratiche superstiziose, mentre la loro fede nel soprannaturale sarà vista come dabbenaggine. Se avessero aderito a qualche strana religione orientale, dietro ad un qualche adoratore del sole o fondatore di una nuova religione, sarebbe andato tutto bene, era un loro diritto, ma aderire alla Chiesa, è un po’ andar fuori di testa, come quando dissero a nostro Signore “che aveva un demonio”. Perché questo cambio repentino di atteggiamento davanti alla conversione alla Chiesa? È semplice: convertirsi alla Chiesa ci fa entrare in un’altra dimensione: quella soprannaturale. Cambia il nostro sistema di valori, i nostri scopi, il modo di pensare, i criteri di giudizio, scegliamo tutto quello che è agli antipodi dello spirito del mondo. Il mondo con il suo odio per la disciplina, l’amore dei piaceri e l’indifferenza verso la verità non può sopportare una vita fondata su Cristo e preoccupata della salvezza dell’anima. “Vi ho scelti dal mondo per questo il mondo vi odia… Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo… sappiate che prima di voi ha odiato me.” (Gv 15, 19. 18).

Oggi molti vogliono una religione che assecondi il loro modo di vivere, invece di una fede che richieda qualcosa da loro. Il risultato è che, per rendere la religione più popolare, troppi profeti l’hanno annacquata, fino a che non si è più distinta in alcun modo da un sentimentalismo secolare. La religione diventa così un bell’oggetto, un’opera, non più una vita, non una responsabilità. Senza dubbio una religione che sia più permissiva con le debolezze umane può risultare più popolare; ad esempio una religione che neghi l’esistenza dell’inferno per chi ha sbagliato o che non dica nulla contro il divorzio e coloro che non tengono fede alle promesse fatte. Tuttavia, come cattolici, non possiamo alterare il messaggio di Cristo; è Lui, non noi, che ha fondato la nostra religione. Inoltre, l’unica religione che può davvero aiutare il mondo è una religione che sappia opporsi alla mentalità del mondo. Molti americani si sentono così delusi da un Cristo senza croce, da guardare di nuovo alla Croce come l’unico punto di riferimento valido che dia un significato alla vita. Magari non riescono a trovare le parole per esprimere il loro conflitto interno, ma sentono indistintamente che alla base della loro infelicità c’è un contrasto tra volontà diverse: i litigi in famiglia hanno questa radice; la nostra miseria ha anch’essa questo alla base; il nostro egoismo che contraddice il volere di Dio. Dobbiamo riscoprire che la pace è là dove la nostra volontà coincide con il volere di Dio, che vuole la nostra realizzazione. Quando disobbediamo al suo volere, non stiamo affermando la nostra indipendenza, ma stiamo solo mutilando la nostra personalità, come rovineremmo un rasoio, se pretendessimo con esso di tagliare un albero. Siamo di Dio, e solo in Lui possiamo essere felici. La nostra infelicità ha la sua origine nella nostra ribellione. La nostra pace può solo venire se sapremo tornare con tutto noi stessi al Suo servizio. Di qui la Croce, il simbolo del sacrificio per amore.

(Fulton J. Sheen, da “Il pianto del Cristo” edizioni Mimep)

“Perché il dolore? Quando mai me lo sono meritato?” LE RAGIONI DEL DOLORE, LA SOFFERENZA E LA PAZIENZA

UN ESTRATTO DAL NUOVO LIBRO DI FULTON SHEEN “IL PIANTO DEL CRISTO”. UN’ANTOLOGIA IMPERDIBILE.

Il libro è appena uscito e si può acquistare sul sito della casa editrice Mimep delle suore. Qui il link: 👇https://www.mimep.it/catalogo/pastorale/riflessioni-pastorali/il-pianto-del-cristo/

Ci sono molte brave persone che si agitano sui loro letti di dolore, i loro corpi afflitti dalle malattie, il cuore spezzato dalle sofferenze o dal dolore per aver perso un caro amico o una fortuna. Se queste anime vogliono recuperare la pace, devono innanzitutto capire che non c’è nessun legame intrinseco tra la sofferenza e il peccato personale. Un giorno Gesù, “Passando, vide un uomo cieco dalla nascita e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?». Rispose Gesù: Né lui ha peccato né i suoi genitori.” (Gv 9, 1–3) Arriviamo così al disegno imperscrutabile di Dio, che non possiamo capire, come un topolino in un pianoforte non può capire che cosa sta facendo il musicista che disturba il suo sonno. Le nostre menti così limitate non possono capire il mistero di Dio. Ma ci sono due verità che anche le anime più tribolate devono tener ben presenti, se vogliono acquistare un po’ di pace. In primo luogo Dio è amore. Pertanto dobbiamo provare gratitudine per tutto quello che ci arriva da Lui. Dio è buono, anche quando non fa quello che noi vorremmo facesse per noi. Egli ci dà esattamente ciò di cui abbiamo bisogno. I genitori non danno ai figli di cinque anni dei fucili per giocare, anche se non c’è bimbetto di cinque anni che non vorrebbe avere un fucile. Come dice Giobbe “Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?” (Gb 2, 10).

In secondo luogo, la ricompensa per la virtù non ci arriva in questa vita, ma nella prossima. Come una stoffa viene tessuta non dal diritto, ma dal rovescio, così in questa vita noi vediamo solo il rovescio del disegno di Dio. Il nostro non è fatalismo, che sarebbe banale sottomissione alla necessità; è pazienza, è obbedienza alla volontà del Divino Amore, che alla fine non desidera altro che la nostra felicità eterna e la perfezione di chi ama. Il fatalismo è un’assurdità, è come un uomo che cammina pericolosamente sul bordo di una nave nel mare in tempesta e che dice, a chi lo guarda preoccupato, “Sono un fatalista”. Altra cosa è l’obbedienza paziente, come quella di un bimbo che dice al padre: “Papà, non so perché vuoi che vada in ospedale per farmi operare. Fa male. Però so che mi vuoi bene.”

Il dolore annienta solo coloro che pensano che il mondo è fisso e assoluto, che non c’è niente al di là. Pensano che tutto dovrebbe essere perfetto. E allora si chiedono: “Perché il dolore? Quando mai me lo sono meritato?” E forse non te lo sei meritato. Sicuramente non se l’era meritato nostro Signore, eppure la Croce è arrivata ugualmente, e attraverso di lei, Cristo è giunto alla sua gloria. La virtù da coltivare in queste anime è dunque la pazienza. La pazienza e la fortezza sono legate come i due lati, concavo e convesso, di una medesima coppa. La Fortezza è la virtù per reggere nelle difficoltà e nei pericoli. La pazienza è la virtù che accetta quello che è difficile da sopportare. Nostro Signore sulla Croce ha dato prova di fortezza andando incontro, volontariamente e liberamente, alla morte per riscattarci dal peccato; la pazienza invece l’ha dimostrata accettando la volontà del Padre. Essendo Dio, niente gli poteva impedire di scendere dalla Croce. Dodici legioni di angeli erano pronte a curare le sue ferite; la terra era uno sgabello ai suoi piedi, i mari un balsamo, il sole il suo carro, i pianeti il suo corteo, e la Croce il suo trono di gloria. Ma egli ha scelto di accettare la morte per darci un esempio: “Non sia fatta la mia volontà, ma la tua” (Lc 22, 42).

L’accettazione del volere di Dio è la pazienza. La pazienza, seppur simile alla fortezza per molti aspetti, è più nobile di quest’ultima, perché, nelle nostre azioni possiamo scegliere quello che più ci piace, talvolta anche sbagliando, ma se sappiamo accogliere le croci della vita, allora è sempre la volontà di Dio che scegliamo di seguire. Il Signore ci ha detto: “Con la vostra pazienza, salverete la vostra vita” (Lc 21, 19). Con la Sua pazienza ha salvato la Sua, perché non è Lui che ha scelto la croce, ma Gli è stata data. Era la Sua, su misura per Lui. Accettare la Croce che Dio ci manda, come Gesù ha abbracciato la sua, anche se non ce la meritiamo, è la via più veloce per fare la volontà di Dio; da qui scaturisce forza e pace: forza perché siamo uno con Lui, che tutto può, pace perché siamo tranquilli, sicuri del suo amore per noi. Ci vogliamo davvero dire cristiani e aspettare che ci sia un’altra strada per il paradiso, diversa da quella percorsa da Cristo stesso? È l’amore che guida – ci basta seguire il nostro Amato, sapendo che Lui ci ama e ha cura di noi. Allora, invece di cercare una via piana, senza difficoltà, cominceremo a considerare le asperità come gli ostacoli nella nostra corsa della vita.

Abbracciare le croci della vita, come dono d’Amore di chi è salito in croce per noi, non significa però arrivare al punto di desiderare la sofferenza. Al contrario, è nella nostra natura ribellarci al dolore. Ma può essere soprannaturale accettare quello che la natura rifiuta, così come la ragione può abbracciare ciò che i sensi rifuggono. Ad esempio: ai miei occhi sarebbe meglio fuggire davanti al medico che vuole incidere la piaga infetta, so che sarà doloroso, ma la ragione mi dice che i miei sensi possono accettare di soffrire per un po’, in nome di un futuro più sano. Allo stesso modo possiamo sopportare i mali inevitabili della vita in nome di un motivo sovrannaturale. La prima parola di Gesù sulla croce suggerisce che è possibile farlo per la remissione dei peccati: “perdona loro”. In affari, si contraggono debiti che possono essere estinti dopo aver rispettato alcuni obblighi e doveri specifici. Perché dovrebbe essere diverso a livello morale? Perché pensiamo di poter peccare impunemente? Se allora siamo segnati dalla croce, perché lamentarci di Dio, e non invece offrire le sofferenze per i nostri stessi peccati o per i peccati del mondo?

Di tutte le assurdità inventate dal nostro mondo, niente supera l’insulsaggine di certe frasi alla moda con cui esortiamo chi soffre o è malato: “Non farti abbattere!”, “Poi passa”. Non sono frasi di conforto, ma una droga per dimenticare. La consolazione è nel dare una ragione al dolore, non nel cancellarlo. È nel trovare l’Amore nel dolore, non nel far finta di niente. È fare del dolore un modo per espiare il peccato, non un altro modo di peccare. Ma come è possibile capire queste cose se non si guarda alla Croce, se non si ama il Crocifisso?

(Fulton J. Sheen, da “Il pianto del Cristo” edizioni Mimep)

LA PASSIONE DELL’IRA E IL PERDONO: “Dimmi chi è il tuo nemico e ti dirò chi sei. Dimmi chi è l’oggetto del tuo odio, e io ti dirò com’è il tuo carattere. Odi il peccato? Allora ami Dio!”

UN ESTRATTO DAL NUOVO LIBRO DI FULTON SHEEN “IL PIANTO DEL CRISTO”

Il libro è appena uscito e si può acquistare sul sito della casa editrice Mimep delle suore.

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Il pianto del Cristo

La passione che nell’uomo affonda più profondamente le sue radici nella sua natura razionale è quella dell’ira. L’ira può essere perfettamente compatibile con la ragione, perché la rabbia si basa sulla ragione, che soppesa il torto subito e la soddisfazione da pretendere. Se ci adiriamo è perché qualcuno ci ha ferito in qualche modo o perché ci sentiamo tali. Ma non sempre l’ira è un peccato: esiste quella che si definisce “la giusta rabbia”. Un esempio è quando nostro Signore si infuria contro i mercanti nel tempio. Varcata la soglia, durante le feste della Pasqua, trovò il cortile del tempio ingombro di commercianti che assillavano i fedeli, cercando di vender loro qualche colomba o un agnello per il sacrificio. Fatta una frusta con alcune cordicelle, Gesù avanzò nel mezzo delle bancarelle, con un’espressione severa, ancor più minacciosa della frusta che aveva in mano. Cacciò i buoi e le pecore con la frusta, mentre con le mani rovesciava i banchi dei cambiavalute, in una pioggia di monetine che rotolavano sul pavimento; si rivolse ai venditori di colombe, ingiungendo loro di lasciarle libere; in tutto questo egli diceva: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!” (Gv 2, 16). In questo si adempì il comandamento delle Scritture, “Adiratevi ma non peccate” (Ef 4, 26) perché la rabbia non è un peccato, in questi tre casi:

1.Se ci si adira per una giusta causa, ad esempio la difesa dell’onore di Dio.

2. Se l’ira non è spropositata rispetto alla sua causa, cioè se la si tiene sotto controllo.

3. Se è subito domata: “Non tramonti il sole sulla vostra ira” (Ef 4, 26).

Qui però non parliamo di “giusta ira”, ma ingiusta, senza un valido motivo – una rabbia eccessiva, vendicativa, accanita: il tipo di rabbia che molti provano in odio verso Dio; la rabbia che vuole l’annientamento della religione su un sesto della superficie terrestre e che in Spagna ha incendiato venticinquemila chiese e cappelle e ucciso dodicimila servi di Dio; il tipo di odio che è diretto non solo contro Dio, ma contro un altro uomo e che viene alimentato dai discepoli della lotta di classe che parlano di pace ma si compiacciono della guerra: la rabbia rossa, che infiamma il volto di furia, e la rabbia bianca, che lo sbianca di livore; la rabbia che cerca “la parità”, che ripaga della stessa moneta, colpo per colpo, pugno per pugno, occhio per occhio, menzogna per menzogna, la rabbia del pugno chiuso pronto a colpire, non in difesa di ciò che si ama, ma all’attacco di ciò che si odia: in una parola la rabbia che distruggerà la nostra civiltà, a meno che la soffochiamo con l’amore.

Nostro Signore è venuto per liberarci dal peccato della rabbia, in primo luogo insegnandoci una preghiera: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”; e poi lasciandoci un comandamento: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”, (Mt 5, 44) e, più concretamente: “Se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due… Se qualcuno ti chiede il mantello, tu dagli anche la tunica” (Mt 5, 40–41). Non sono ammesse vendetta e ritorsione: “Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. … ma io vi dico amate i vostri nemici” (Mt 5, 38, 44). Questi precetti sono ancor più impressionanti perché Gesù stesso li ha messi in pratica. Quando i Geraseni si arrabbiarono con lui perché egli attribuì un peso maggiore alla vita di un povero uomo, piuttosto che ad una mandria di maiali, la Scrittura non riporta nessuna rimostranza da parte sua: “Salito sulla barca, passò dall’altra parte” (Mt 9, 1), al soldato che l’aveva colpito con il pugno di ferro, la sua risposta mite fu: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18, 23). La rabbia fu completamente riparata sul Calvario. Fu l’odio e la rabbia a trascinare nostro Signore su quella collina. I suoi concittadini lo odiavano e reclamavano la sua crocifissione; la legge lo odiava, tanto da rinnegare la giustizia pur di condannare la Giustizia; i gentili lo odiavano, perché hanno permesso che venisse ucciso; i boschi lo odiavano perché fu su uno dei loro alberi che venne inchiodato; i fiori lo odiavano perché fornirono le spine con cui venne incoronato; le viscere della terra lo odiavano e fornirono l’acciaio e il ferro per il martello e i chiodi. E poi, per rendere più personale tutto quest’odio, si è vista la prima generazione del pugno chiuso che sia mai apparsa nella storia: erano quelli che lo minacciavano sotto la croce. Quel giorno hanno dilaniato il suo corpo, come oggi distruggono e mandano in frantumi il suo tabernacolo. I loro figli e le loro figlie calpestano le croci in Spagna e in Russia, come un tempo hanno percosso il crocifisso sul Calvario.

Non crediate che il pugno chiuso sia un fenomeno del ventesimo secolo: coloro che oggi raggelano i loro cuori in un pugno, sono i diretti eredi di coloro che sotto la croce levavano le mani contro l’Amore e con le loro voci roche cantavano la prima Internazionale dell’odio. Davanti a quei pugni chiusi, vien naturale pensare che se c’è una volta che la rabbia potrebbe dirsi giustificata, se c’è una volta in cui la Giustizia poteva essere applicata correttamente, una volta in cui il Potere poteva essere degnamente esercitato o l’Innocenza rivendicata a ragion veduta, una volta in cui Dio avrebbe avuto tutte le ragioni di punire l’uomo, ebbene quel momento era proprio quello sul Calvario. E tuttavia, proprio in quell’istante in cui una falce e un martello hanno tagliato l’erba sul Calvario per far posto alla croce, e i chiodi hanno immobilizzato le mani impedendo loro di impartire la benedizione dell’Amore Incarnato, egli, come un legno profumato che inonda del suo aroma l’ascia che lo stronca, ha pronunciato con le sue labbra la prima preghiera che sia mai calata sulla terra, la preghiera perfetta che sana la rabbia e l’odio. Una preghiera per l’esercito dei pugni chiusi, la prima parola pronunciata sulla croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”.

Anche il peggior peccatore adesso può essere salvato; il peccato più nero può essere cancellato; i pugni chiusi possono aprirsi; ciò che era imperdonabile ora può essere perdonato. Anche se loro credevano di sapere quello che stavano facendo, Cristo fa appello a quell’unica attenuante per il loro crimine e la adduce davanti al Padre Celeste, con tutto l’ardore del suo Cuore misericordioso: l’ignoranza – “non sanno quello che fanno”. Se avessero saputo quello che stavano facendo, inchiodando l’Amore alla croce, e pur sapendolo avessero continuato a farlo, non ci sarebbe stata redenzione per loro. Sarebbero stati dannati. È solo perché i pugni si chiudono nell’ignoranza, che è possibile ancora aprirli in mani che si congiungono, è perché le lingue blasfeme sono ignoranti, che esse possono ancora sciogliersi in preghiera. Non è la loro consapevolezza che li salva: ma la loro ignoranza inconsapevole.

Questa parola sulla croce ci insegna due cose: (1) l’ignoranza può scusare, (2) non c’è limite al perdono. Un motivo per perdonare è l’ignoranza. L’Innocenza divina ha trovato questa scusa per perdonare. Sicuramente la colpa non può essere inferiore. Nel suo primo sermone, S. Pietro ha usato la medesima scusa dell’ignoranza per la crocefissione, ancora fresca nella sua memoria: “Avete ucciso l’autore della vita … Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi.” (At 3, 15; 17) Se il male fosse stato fatto in piena consapevolezza, deliberatamente, sapendo quali erano le conseguenze degli atti compiuti, allora non poteva esserci perdono. Ecco perché non è stata possibile una redenzione nel caso degli angeli caduti. Loro sapevano che cosa stavano facendo. Noi no. Noi siamo ignoranti, ignoranti su noi stessi e ignoranti sugli altri. Ignoranti sugli altri. Quanto poco sappiamo dei loro motivi, della loro buona fede, delle circostanze che li hanno portati ad agire in un certo modo. Quando gli altri ci usano violenza, spesso ci dimentichiamo di quanto poco conosciamo i loro cuori e diciamo “Non mi sembra proprio che ci siano scusanti, neanche minime, sapevano benissimo quello che stavano facendo”. Eppure, nelle stesse circostanze, Gesù ha saputo dire “Non sanno quello che fanno”. Non sappiamo nulla di quello che c’è nel cuore del nostro prossimo e per questo ci rifiutiamo di perdonare. Gesù conosceva bene i cuori, dentro e fuori, e per questo ha perdonato. Prendete un fatto qualsiasi, chiedete a cinque persone di giudicarlo: avrete cinque interpretazioni diverse di quello che è successo. Nessuno di loro può conoscere tutti i fattori in ballo. Nostro Signore sì, ed è per questo che perdona. Perché noi troviamo mille scuse per giustificare la nostra rabbia verso il prossimo e non vogliamo ammettere alcuna giustificazione per la rabbia degli altri verso di noi? Diciamo che gli altri ci perdonerebbero se solo ci capissero meglio e che il solo motivo della loro rabbia è che “Non ci capiscono”. Perché l’ignoranza non è reversibile? Non può darsi che noi non capiamo le motivazioni degli altri, così come loro non capiscono le nostre? Il fatto che noi ci rifiutiamo di giustificare il loro odio, non può voler dire, implicitamente, che anche noi, nelle stesse circostanze, ci saremmo comportati in un modo imperdonabile?

Ignoranti su come siamo: un’altra ragione per perdonare gli altri. Purtroppo, non conosciamo noi stessi: sappiamo vedere con chiarezza i peccati, le debolezze e le mancanze del nostro prossimo, almeno mille volte meglio di quanto vediamo le nostre colpe. Criticare gli altri non è una buona cosa, ma la mancanza di autocritica è anche peggio. Forse sarebbe meno grave criticare gli altri se, prima, sapessimo vedere i nostri difetti: dopo aver perlustrato con cura la nostra anima, allora forse saremmo meno certi del nostro diritto di indagare le anime degli altri. È solo perché non sappiamo nulla delle nostre condizioni, che non capiamo quanto noi, per primi, abbiamo bisogno di perdono. Abbiamo mai offeso Dio? Ha dei motivi per essere irato con noi? Allora perché noi, che abbiamo così tanto bisogno di essere perdonati, non dovremmo riscattarci perdonando a nostra volta gli altri? La risposta è che non facciamo mai seriamente un esame di coscienza. Siamo così inconsapevoli della nostra vera condizione che tutto quello che di certo possiamo dire di noi è giusto il nome, l’indirizzo e che cosa possediamo; del nostro egoismo, invidia, deviazioni, peccati invece non sappiamo nulla. Infatti, per evitare di guardarci dentro, evitiamo il silenzio e la solitudine. Per evitare che la nostra coscienza si faccia troppo sentire, affoghiamo la sua voce nei divertimenti, nelle distrazioni e nel rumore. Odiamo tutto ciò che vediamo riflesso di noi negli altri. Se conoscessimo meglio noi stessi, sapremmo perdonare di più gli altri. Più siamo severi con noi stessi, più saremo indulgenti con gli altri: un uomo che non ha mai obbedito, non sa come si fa a comandare, e l’uomo che non conosce l’autodisciplina, non può usare misericordia con gli altri. È l’egoista il più spietato con gli altri; chi è duro con se stesso sa essere gentile con gli altri: l’insegnante che non conosce bene la sua materia è il più intollerante con i suoi studenti. Solo il Signore, che si riteneva così poca cosa da abbassarsi a farsi uomo e morire come un criminale, poteva perdonare le colpe di coloro che l’hanno crocifisso.

Non è l’odio che è sbagliato: ma è odiare per il motivo sbagliato che è un errore. Non è la rabbia che è sbagliata: ma l’essere adirati con la cosa sbagliata che non va bene. Dimmi chi è il tuo nemico e ti dirò chi sei. Dimmi chi è l’oggetto del tuo odio, e io ti dirò com’è il tuo carattere. Odi la religione? Allora ti rimorde la coscienza. Odi i capitalisti? Allora sei un avaro, che brama le ricchezze. Odi gli operai? Allora sei un egoista e uno snob. Odi il peccato? Allora ami Dio. Odi il tuo odio, il tuo egoismo, il tuo carattere avventato e la tua cattiveria? Allora sei un’anima buona, perché “Se uno viene a me… e non odia la sua vita, non può essere mio discepolo.” (Lc 14, 26).

La seconda lezione che ci arriva dalla prima parola di Cristo sulla croce è che non c’è limite al perdono. Nostro Signore ha perdonato pur essendo innocente, quindi non perché qualcuno aveva perdonato lui. Per questo non basta perdonare gli altri perché siamo stati perdonati, ma dobbiamo perdonarli anche se siamo innocenti. Il problema è capire quali sono i limiti del perdono. Una volta Pietro ha chiesto al Signore “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?” (Mt 18, 21). Pietro pensava di aver esagerato con il suo “sette volte”, perché era già quattro volte di più di quanto prevedevano i Dottori della legge. Pietro aveva proposto un limite, oltre il quale non c’era più perdono. Pensava che il diritto ad essere perdonati sarebbe automaticamente scaduto dopo sette offese. Sarebbe come dire “Rinuncio al mio diritto a riscuotere i miei crediti verso di te, fintanto che la somma che mi devi rimane sotto i sette dollari. Ma se vai sopra questa somma, allora la mia rinuncia non è più valida e posso strozzarti già per otto dollari.” Nostro Signore, rispondendo a Pietro, dice che il perdono non ha limiti; il perdono è la rinuncia a qualsiasi diritto, è la negazione di un limite. “Ti dico non sette volte, ma settanta volte sette.” (Mt 18, 22). Il che significa, non 490 volte, ma all’infinito. Il Salvatore ha allora proseguito con la parabola del servo infedele che, subito dopo aver visto condonare il suo debito di diecimila talenti, si avventa sull’altro servo che gli doveva pochi spiccioli. Il servo spietato, rifiutando di avere misericordia del suo debitore, ha visto revocare la misericordia che gli era stata usata. La sua colpa non era tanto la sua implacabilità verso gli altri, pur essendo lui per primo bisognoso di perdono, quanto il fatto che, malgrado fosse stato perdonato, non aveva perdonato a sua volta. “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”. (Mt 18, 35).

Perdonate, e sarete perdonati; allontanate la vostra ira e Dio allontanerà la sua. Il Giudizio è come la mietitura: raccoglieremo ciò che abbiamo seminato. Se abbiamo seminato la rabbia contro i fratelli durante la vita, non raccoglieremo altro che la rabbia di Dio. Non giudicate, e non sarete giudicati. Se nella nostra vita perdoneremo agli altri di cuore, il Giorno del Giudizio Dio, nella sua saggezza, farà qualcosa di non abituale per lui: dimenticherà di metterci in conto qualcosa, e si limiterà a sottrarre invece di aggiungere. Lui che si ricorda ogni cosa dall’eternità, dimenticherà i nostri peccati. E così ci salveremo ancora una volta, grazie alla divina “ignoranza”. Se perdoniamo gli altri sulla base del fatto che non sapevano cosa facevano, Nostro Signore ci perdonerà sulla base del fatto che non si ricorda più quello che abbiamo fatto. Può anche darsi che, vedendo ora una mano che benedice un nemico dopo aver ascoltato la prima parola sulla croce, Dio arrivi a scordarsi persino che quella mano era un tempo un pugno chiuso, macchiato dal sangue del martirio cristiano.

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Il pianto del Cristo

“BEATI I PURI DI CUORE PERCHÉ VEDRANNO DIO” UN ESTRATTO DAL NUOVO LIBRO IMPERDIBILE DI FULTON SHEEN

UN ESTRATTO DAL NUOVO LIBRO DI FULTON SHEEN “IL PIANTO DEL CRISTO”

Il libro uscirà nelle librerie il 20 Febbraio ma si può già pre-ordinare e prenotare sul sito della casa editrice Mimep delle suore. Qui il link: 👇

Il pianto del Cristo

Sulla montagna delle Beatitudini, all’inizio della sua vita pubblica, nostro Signore ha predicato: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5,8). Ora, alla fine della sua vita, sul Calvario, Cristo si rivolge ai puri di cuore: “Figlio, ecco tua madre, Donna, ecco tuo figlio”. (Gv 19, 26–27). Certo, questa non è una beatitudine del mondo. Oggi il mondo vive quella che potremmo definire “l’età della carnalità”, dove si inneggia al sesso, si rifugge da ogni restrizione, la purezza viene presa per freddezza, l’innocenza per ignoranza e gli uomini e le donne si atteggiano a piccoli Budda che, con gli occhi chiusi e le braccia incrociate sul petto, si soffermano a guardarsi nell’intimo e finiscono per pensare solo a se stessi. Contro l’esaltazione del sesso e il conseguente egocentrismo, nostro Signore ben sottolinea la terza beatitudine: “Beati i puri di cuore”. La terza beatitudine e la terza parola sulla croce sono strettamente legate, l’una è la teoria, l’altra l’esempio pratico che ne deriva, perché è la purezza di nostro Signore che ha reso possibile il dono di sua Madre. Questa è la prima lezione che ci viene da questa terza parola: Maria è diventata nostra Madre perché suo Figlio è la purezza fatta persona. In nessun altro caso egli avrebbe potuto consegnarcela così totalmente e di tutto cuore.

Per capire come Maria ha potuto diventare nostra Madre attraverso la purezza è sufficiente soffermarci un momento a pensare a che cos’è la carne. Anche nei suoi momenti di soddisfazione legittima, la carne implica fondamentalmente l’egoismo. I piaceri della carne mirano alla propria soddisfazione, prima che a quella di un altro. Anche la legge dell’autoconservazione implica, lo dice la stessa parola, una sorta di egoismo. Se l’oggetto del desiderio, poi, non è legittimo, la carne porta ad un egoismo estremo perché, per la propria soddisfazione, arriva a tiranneggiare l’altro, a consumarlo solo per mantenere ardente il fuoco del proprio desiderio. Ma Dio nella sua saggezza ha istituito due vie di salvezza dall’egoismo della carne: il sacramento del Matrimonio e il voto di Castità. Ciascuno di questi due istituti non solo rompe il circolo vizioso dell’egoismo, ma apre ad un orizzonte più vasto di servizio all’altro. O, per dirla in altri termini: chi è più puro di cuore, è meno egoista. La prima via d’uscita dall’egoismo della carne, istituita da Dio stesso, è il Matrimonio. Il matrimonio annienta l’egoismo, prima di tutto perché fonde due individui, in una vita di collaborazione, dove entrambi non vivono più per se stessi ma per l’altro; inoltre il matrimonio annienta l’egoismo perché, nella vita di coppia, distrugge l’infatuazione passeggera che in un istante nasce e muore; inoltre distrugge l’egoismo perché l’amore reciproco tra marito e moglie obbliga la coppia ad uscire da sé, ad incarnarsi in una nuova creatura, nei figli, per la cui cura si devono affrontare sacrifici, senza i quali, come fiori senza acqua, i due rischierebbero di appassire e morire.

Questi però sono solo gli aspetti negativi del Matrimonio rispetto alla carne. Infatti quello che più conta è che il matrimonio cura dall’egoismo usando la carne, mettendola al servizio degli altri. Si aprono così nuovi scenari e nuove prospettive dove l’affetto e il sacrificio si rendono disponibili alla carne; gli altri diventano più importanti di noi stessi; l’ego non è più qualcosa di circoscritto ma si spalanca agli altri, può persino arrivare a dimenticare se stesso. Ciò è così vero che spesso si osserva che le famiglie numerose sono meno egoiste delle piccole. Un marito e una moglie possono vivere l’uno per l’altra, ma un padre e una madre devono morire a se stessi perché vivano i loro figli. Nella loro vita non c’è più posto per qualsiasi attaccamento egoista o sregolato. Dove è il loro cuore, là è anche il loro tesoro. Hanno sacrificato la carne perché altri possano vivere, è questo il punto da cui parte l’amore.

Dio però ha pensato ad un’altra via d’uscita dall’egoismo della carne, qualcosa di ancora più completo del Matrimonio: il voto di Castità. Gli uomini e le donne che scelgono questa via non lo fanno per evitare i sacrifici implicati dal matrimonio, ma per liberarsi dalla schiavitù della carne ed essere liberi di dedicarsi ad un compito più grande. Come dice san Paolo: “chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso”. (1Cor 7,32–33). I voti di castità sono una forma più alta di sacrificio rispetto al Matrimonio, semplicemente perché assicurano un maggior distacco dai piaceri della carne. Maggiore è la purezza, minore è l’egoismo. Chi sceglie la via dei voti è libero di servire ed amare non un solo uomo o una sola donna, o i suoi figli, ma tutti gli uomini e tutte le donne, e tutti i bambini, nel vincolo della carità in Cristo Gesù, nostro Signore.

Il Matrimonio libera la carne dall’egoismo individualista per il servizio della famiglia; il voto di castità libera la carne non solo per quanto riguarda il cerchio ristretto della famiglia, dove l’egoismo può non essere vinto del tutto, ma la spalanca a tutta la grande famiglia dell’umanità. Ecco perché la Chiesa chiede a chi si consacra per la redenzione del mondo di pronunciare il voto di rinunciare ad ogni egoismo per appartenere non ad una famiglia, ma a tutte. Ecco perché nella grande famiglia del regno di Dio, il sacerdote viene chiamato “Padre”, perché molti sono i suoi figli, non generati nella carne, ma nello spirito. Ed ecco perché nelle comunità religiose femminili, viene chiamata “Madre” colei che guida il piccolo gregge in Cristo. Ed ecco perché in molti ordini maschili, gli uomini si chiamano fra loro “Fratelli”, e le donne di uno stesso ordine si chiamano “Sorelle”. Sono tutti membri di una sola nuova famiglia, nella quale i legami sono definiti non dalla nascita nella carne ma dalla nascita in Cristo, tutti alla ricerca disinteressata della gloria di Dio e della salvezza dei peccatori, nell’obbedienza a colui che amano più di ogni altro al mondo: il Santo Padre, il successore di Pietro e vicario di Cristo.

Ora, se il Matrimonio e il voto di castità liberano dall’egoismo della carne, e se una maggior purezza è la premessa necessaria per un servizio più esteso agli altri, che cosa ci dobbiamo aspettare quando incontriamo la purezza perfetta? Se una persona diventa sempre meno egoista, man mano che progredisce nella purezza, che cos’è allora la perfezione, la totale assenza di peccato e la purezza perfetta? Se crescendo la purezza, cresce l’altruismo e l’abnegazione, che cosa ci possiamo aspettare dall’innocenza? La risposta è il sacrificio perfetto. Se una persona è totalmente libera dall’egoismo, non cerca il proprio comodo, né si cura della propria vita, ecco che in lei si ripete il sacrificio della Croce. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici”. (Gv 15,13). Al di là di ogni legame o vincolo di sangue, nella sua purezza assoluta, Cristo ci ha detto “chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre”. (Mt 12,50)

Nostro Signore sulla croce era così distaccato dal proprio tornaconto, così estraneo ad ogni egoismo, così disinteressato alla carne, che ha potuto guardare a sua Madre, non come se fosse solo sua, ma facendone la Madre di tutti. La purezza perfetta è abnegazione perfetta. Ecco perché Cristo dona sua Madre a noi, rappresentati da Giovanni: “Ecco tua madre”. Non voleva essere egoista, non voleva tenere tutta per sé la più bella ed amabile delle madri: era pronto a condividere sua Madre con tutti noi. E così, ai piedi della croce, ha donato a noi la Madre di Dio, la Madre di tutti gli uomini. Nessuno avrebbe potuto fare una cosa simile, i vincoli della carne e dell’egoismo avrebbero prevalso. I legami della carne sono troppo stringenti perché chiunque di noi possa condividere sua madre con un’altra persona. Ma la purezza assoluta può farlo. Ecco perché la beatitudine sui puri di cuore ben si abbina alla terza parola: l’altruismo ha toccato l’apice, la purezza assoluta, non solo Cristo ha dato la vita per la nostra salvezza, ma ci ha anche dato sua Madre perché non restassimo orfani. La purezza dunque non è qualcosa di negativo; non è solo un bocciolo che non si è dischiuso; non è qualcosa di freddo, non è l’ignoranza della vita. Forse che la giustizia è solo l’assenza di disonestà? E la misericordia coincide con l’assenza della crudeltà? La fede è solo la mancanza di dubbi? La purezza non è solo la mancanza di sensualità, è altruismo che nasce dall’amore, dall’amore più elevato di tutti. Chiunque ha fatto un voto è innamorato, non di un amore che muore, ma dell’amore eterno: l’amore per Dio. La castità è appassionata, Francis Thompson dice di lei che è “la passione senza passione, un’impetuosa serenità”. La castità non è una virtù impossibile. Anche chi non la possiede può esserlo di fatto. Sant’Agostino chiama Maria Maddalena “l’archetipo delle vergini”. Pensateci! Lei un esempio di verginità! Quanto a verginità sant’Agostino la equipara alla Beata Madre di Dio, Maddalena, una semplice prostituta. Questa donna ha riacquistato la sua purezza ricevendo l’anticipo dell’Eucaristia, la sera che ha lavato con le sue lacrime i piedi di Cristo. Quello è stato il suo contatto con la purezza, che ha segnato così profondamente la sua vita da portarla, poco tempo dopo, ai piedi della croce, quel venerdì santo. E chi era con lei allora? Proprio la Beatissima Madre. Che coppia: una donna il cui nome, solo pochi mesi prima, era sinonimo di peccato accanto alla Santissima Vergine! Se Maria ha voluto bene alla Maddalena, perché non potrebbe amare anche noi? Se c’è speranza per la Maddalena, allora c’è speranza anche per noi. Se lei ha ritrovato la purezza, allora anche noi possiamo riacquistarla. E come potremmo se non attraverso Maria, perché altrimenti chiamarla Purissima Madre, se non fosse perché rende puri anche noi?

Chiunque può rivolgersi a Maria, non solo i peccatori pentiti come la Maddalena, ma anche i vergini o le brave madri, perché lei è sia Vergine che Madre. La Verginità da sola potrebbe mancare di qualcosa. C’è come qualcosa di incompleto, una facoltà non utilizzata. La maternità da sola potrebbe mancar di qualcosa. Nella maternità si rinuncia a qualcosa. Ma in Maria “nulla manca e nulla è perduto” (Sheila Kay Smith). C’è verginità anche nella maternità – “la primavera di un maggio che non finisce mai”. La purezza, allora, non è egoismo. È resa, è altruismo, è sacrificio. Raggiunge il suo massimo quando la Madre di Gesù diventa nostra Madre. Basta con quegli stupidi modi di dire del mondo: “l’amore è cieco”. Non può essere cieco! Nostro Signore ci ha detto espressamente “Beati i puri di cuore, perché vedranno” – vedranno addirittura Dio! Maria, apri i nostri occhi!

Il libro uscirà nelle librerie il 20 Febbraio ma si può già pre-ordinare e prenotare sul sito della casa editrice Mimep delle suore.

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https://www.mimep.it/catalogo/pastorale/riflessioni-pastorali/il-pianto-del-cristo/

IL PIANTO DEL CRISTO: UN NUOVO LIBRO DI FULTON SHEEN CHE RAPPRESENTA UN’AUTENTICA CHIAMATA ALLA SANTITÀ!

Il libro uscirà nelle librerie il 20 Febbraio ma si può già pre-ordinare e prenotare sul sito della casa editrice Mimep delle suore.

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https://www.mimep.it/catalogo/pastorale/riflessioni-pastorali/il-pianto-del-cristo/

Per la prima volta, i sette testi del Vescovo americano Fulton Sheen sulle “Ultime Sette Parole” sono stati raccolti in questo volume. L’autore mostra come le parole del Crocifisso siano, in realtà, un catechismo completo sulla vita spirituale. Guidato dal suo carisma eccezionale il lettore scopre i segreti per praticare le beatitudini, evitare i vizi capitali, coltivare le virtù e vivere in Grazia di Dio. E’ condotto all’ombra della Croce, per entrare in un rapporto sempre più profondo con il Salvatore. Pochi libri esprimono una tale forza spirituale: questa antologia rappresenta un’autentica chiamata alla santità!

Fulton Sheen scrisse questi sette testi tra il 1933 e il 1945:

  1. Le ultime sette parole (1933)
  2. La croce e le beatitudini (1937)
  3. L’arcobaleno del dolore (1938)
  4. La vittoria sul vizio (1940)
  5. Le sette virtù (1939)
  6. Le sette parole alla croce (1944)
  7. Le sette parole di Gesù e Maria (1945)

La presente antologia si compone di sette parti, ciascuna delle quali tratta di una delle sette parole pronunciate da Cristo sulla croce. In ciascuna di queste parti è stato poi inserito un passo tratto da uno dei libri summenzionati, così da ampliare e completare gli spunti offerti per la meditazione e lo studio delle seguenti tematiche:

  1. Le parole di Cristo dalla Croce
  2. Le beatitudini
  3. Dolore e sofferenza
  4. I sette peccati mortali
  5. Le sette virtù
  6. I gruppi che rifiutano la Chiesa e i suoi insegnamenti
  7. L’unità di Gesù e Maria
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