
Più esperienza si ha del proprio peccato peccando, meno se ne è coscienti. Il peccato penetra nel sangue, nelle cellule nervose, nel cervello, nelle abitudini, nello spirito; e più esso penetra nell’uomo, meno l’uomo si rende conto della sua esistenza. Il peccatore si abitua talmente al peccato che non ne riconosce più la gravità.
Forte di questa nefanda certezza, Satana tentò Eva: le disse che se avesse posseduto la conoscenza del bene e del male, sarebbe stata simile a Dio. Satana non le disse la verità vera: che Dio conosce il male solo negativamente, intellettualmente, come un medico che non ha mai avuto la polmonite sa che essa è una negazione della salute. Ma un essere umano che voglia conoscere compiutamente il male deve conoscerlo sperimentalmente, il che significa che deve penetrarvi e diventarne parte.
Come la cataratta in un occhio ostruisce la vista, così il peccato oscura sempre la mente, indebolisce la volontà e induce l’uomo a commettere un altro peccato. Ogni peccato facilita il successivo; la coscienza diventa meno pronta al rimprovero, la virtù è più spiacevole e l’atteggiamento verso la moralità più sprezzante e beffardo. In alcune persone il peccato opera come un cancro minando e distruggendo il carattere senza che per molto tempo se ne vedano gli effetti. Quando la malattia si manifesta, è talmente avanzata che l’ammalato rinuncia quasi a ogni speranza di guarigione. (…)
Ma l’uomo moderno ha perduto perfino la comprensione della parola “peccato”. Quando pecca e sente gli effetti del suo peccato (come accade a molti), cerca sollievo in culti falsi e bugiardi oppure abbandonandosi alla menzogna dell’alcolismo o degli stupefacenti. Attribuisce la colpa del suo disagio alla propria moglie, al proprio lavoro, ai propri amici o alla situazione economica, sociale e politica. Spesso diventa un nevropatico. Se la sua nevrosi è abbastanza avanzata, qualche psicoanalista freudiano gli dirà che non è completamente responsabile delle sue azioni perché è un “ammalato”. Il che gli è di ulteriore pretesto per non riconoscere i suoi peccati.
Se rimaniamo nel peccato negandolo, la disperazione si impadronisce delle nostre anime. Un peccatore può peccare tanto da non riconoscere il carattere totalitario del suo peccato. Egli non considera mai che l’attuale colpa va ad aggiungersi a migliaia di altri peccati precedenti. I peccati di cui non ci si pente generano nuovi peccati, e l’astronomica cifra totale genera la disperazione. Maggiore è la disperazione, maggiore è il bisogno del peccatore di sfuggirvi attraverso altri peccati.
Lo stato di disperazione del peccatore, prodotto dal mancato pentimento dei peccati, raggiunge spesso un grado di fanatica rivolta contro la religione e la moralità. Chi è caduto in basso detesterà l’ordine spirituale che lo sovrasta, perché la religione gli ricorda la sua colpa. Queste anime giungeranno fatalmente, come Nietzsche, a desiderare di esasperare il male finché ogni distinzione tra quello che è giusto e quello che è ingiusto sia cancellata; allora potranno peccare impunemente e dire con Nietzsche: “Male, sii tu il mio bene!”.
La convenienza sostituisce la moralità, la crudeltà diventa giustizia, la lussuria diventa amore. Il peccato si moltiplica in queste anime fino a farne la dimora permanente di Satana, maledette da Cristo come i sepolcri imbiancati di questo mondo. Questa è la storia di una “brava persona” che crede di non commettere mai peccati.
(…) Il peccato veramente imperdonabile è la negazione del peccato, poiché, naturalmente, non rimane più nulla da perdonare.
(Fulton J. Sheen, da “La Pace dell’Anima” edizioni Fede e Cultura)