
L’unione con la felicità perfetta, che è Dio, non è qualcosa di estrinseco a noi, come una medaglia d’oro per uno studioso, ma è, piuttosto, intrinseca in noi come la fioritura nel fiore: senza di lei ci sentiamo incompleti e insoddisfatti. Effettivamente, l’ego ininterrottamente si strugge di questo amore divino: la sua insaziabile esigenza di felicità, le sue anticipazioni di piaceri estatici, il costante desiderio di un amore che non comporti la sazietà, il suo protendersi verso qualcosa che è oltre la sua portata, la sua tristezza inevitabile dopo aver conseguito ogni felicità che non si adegui all’infinito – tutti questi stati d’animo rappresentano un appello dell’anima alla congiunzione con Dio.
Come gli alberi della foresta si contorcono per superare gli altri alberi e arrivare ad assorbire la luce, così ogni essere cerca ardentemente l’amore che è Dio. E se questo amore dovesse sembrare contrario ai desideri di alcune persone, lo è solamente perché è contrario al loro egoismo radicale, ma non alla loro natura. Dio non ha dato all’essere tutto ciò di cui necessita per la felicità, ma si è trattenuto una cosa indispensabile: se stesso.
Qui appare un’importante analogia tra l’infelicità temporale qui sulla terra e l’infelicità eterna nell’inferno; in entrambi i casi l’anima è priva di qualcosa di vitale: Dio. Ed è proprio questo che provoca l’inferno: la mancanza di vita perfetta, di verità perfetta e di amore perfetto, ossia di Dio, che è essenziale alla nostra felicità, che è La nostra felicità. Dio trattiene qualcosa di essenziale all’uomo lontano dalla terra, non come punizione, ma come sprone. Il poeta George Herbert ci ha detto come Dio profondesse per l’uomo la ricchezza, la bellezza e il piacere, ma trattenesse se stesso:
“Perché se io dovessi (disse Egli) donare anche questo gioiello alle creature, l’uomo adorerebbe i Miei doni invece di Me, e si ristorerebbe nella natura, non già nel Dio della natura, e ci perderebbero entrambi. Che si tenga pure tutto il riposo ma lo tenga in dolente irrequietezza; sia ricco e inquieto, così che alla fine, se non lo guida la bontà, la stanchezza lo getti sul mio petto.”
Occorre uno sforzo per crescere in questo amore, poiché se l’arte della pittura si coltiva dipingendo, il parlare si acquista parlando e lo studio s’impara studiando, così l’amore s’impara amando. Occorre un notevole grado di ascetismo per bandire ogni pensiero disamorato e fare eventualmente di noi degli esseri amanti. È la volontà di amare, in definitiva, che ci rende tali.
(Fulton J. Sheen, da “Tre per sposarsi” edizioni Fede e Cultura)
L’ha ripubblicato su Per la maggior gloria di Dio.
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