
Il Magnificat è l’inno di una madre il cui Figlio è al tempo stesso Dio… “La mia anima magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore”. Il volto delle donne era stato velato per secoli, e anche quello degli uomini, nel senso che gli uomini si erano nascosti allo sguardo di Dio. Ma ora che il velo del peccato era stato tolto, la donna eretta guarda il volto di Dio per lodarlo. Quando il divino penetra nell’umano, l’anima pensa meno a chiedere che ad amare. Chi ama non chiede favori all’amato; Maria non formula domande, ma soltanto lodi. Quando l’anima si distacca dalle cose e diviene conscia di sé e del suo destino, conosce se stessa soltanto in Dio. L’egoista magnifica se stesso; Maria magnifica il Signore. L’uomo sensuale pensa prima al corpo, il mediocre non pensa a Dio che in un secondo momento.
In Maria niente ha la precedenza su colui che è Dio creatore, Signore della Storia, e Salvatore del genere umano. Quando gli amici ci lodano per ciò che abbiamo fatto, noi li ringraziamo della loro cortesia. Quando Elisabetta elogia Maria, Maria glorifica il suo Dio. Maria riceve la lode come uno specchio la luce: non la trattiene per sé, non la riconosce nemmeno come sua, ma la trasmette a Dio, a cui si deve ogni lode, onore e rendimento di grazie. La sintesi di questo canto è “Grazie, o Dio”. L’intera personalità di lei sta nell’essere a servizio del suo Dio. Troppo spesso gli uomini lodano il Signore con la lingua, ma il loro cuore è lontano da Lui. “Salgono le parole, ma i pensieri restano in basso”. In Maria invece non erano le labbra ma l’anima e il cuore che si effondevano nelle parole, perché il segreto d’amore racchiuso in lei aveva già spezzato i legami che lo trattenevano.
Perché magnificare il Signore che non può diventare né più piccolo per quello che gli sottraiamo col nostro ateismo, né più grande se gli aggiungiamo la nostra lode? È vero: in se stesso Dio non cambia per il nostro riconoscimento, come un quadro di Raffaello non perde la sua bellezza se uno sciocco lo deride, ma Dio in noi è suscettibile di crescita o di diminuzione a seconda se lo amiamo o se siamo peccatori. Quando il nostro ego si gonfia, il bisogno di Dio sembra che sia minore; quando il nostro ego si sgonfia, il bisogno di Dio appare in tutta la sua urgenza. L’amore di Dio si riflette nell’anima del giusto, proprio come la luce del sole viene potenziata da uno specchio. Il figlio di Maria è il sole, perché lei è la luna. Lei è il nido e lui è l’uccellino che volerà su un albero più alto e la chiamerà poi a sé. Maria lo chiama suo Signore o Salvatore. Anche se è stata preservata dalla macchia del peccato originale, ciò è interamente dovuto ai meriti della Passione e Morte del suo figlio divino. Di per sé Maria non è niente e non ha niente: Lui è tutto! Perché Lui ha benignamente posato il suo sguardo sull’umiltà della sua ancella, perché colui che è il potente, e il cui nome è santo, ha operato per me tali meraviglie.
L’orgoglioso finisce nella disperazione, e l’ultimo atto di disperazione è il suicidio, ossia il togliersi la vita, perché questa è diventata insopportabile. Gli umili non possono non essere contenti; perché dove non c’è orgoglio non può esserci l’egocentrismo che rende impossibile la gioia. Il canto di Maria ha questa doppia nota: il suo spirito esulta perché Dio ha posato il suo sguardo sulla sua umiltà. Una scatola piena di sabbia non può essere riempita di oro; un’anima colma fino a scoppiare del proprio ego non potrà mai essere riempita di Dio. Non c’è limite da parte di Dio al possesso di un’anima; essa sola può limitare la sua venuta, così come una tendina limita la luce. Quanto più vuota è l’anima, tanto maggiore è in essa lo spazio per Dio. Quanto più grande è la cavità del nido, tanto più grosso è l’uccello che in quella cavità si può sistemare. C’è un rapporto intrinseco tra l’umiltà di Maria e l’Incarnazione in lei del figlio di Dio. È divenuta ora il tabernacolo del re dei cieli, che i cieli non potrebbero contenere. L’Altissimo posa il suo sguardo sull’umiltà della sua ancella. L’umiltà di Maria, da sola, non sarebbe bastata, se colui che è il suo Dio, il suo Signore e Salvatore, non “si fosse umiliato”. Per quanto vuota possa essere la tazza, non può contenere l’oceano.
Le persone sono come le spugne. Come ogni spugna può contenere solo una certa quantità di acqua e poi raggiunge un punto di saturazione, così ogni individuo può ricevere solo una certa quantità di onore. Quando si è raggiunto il punto di saturazione, non è più l’uomo che porta l’onore, ma è l’onore che porta l’uomo. È sempre dopo aver accettato un onore che il ricevente mormora con falsa umiltà: “Signore, non sono degno”. Ma qui, Maria, una volta ricevuto l’onore, invece di ritenersi paga del suo privilegio, si fa serva-infermiera della vecchia cugina e mentre sta prestando l’opera sua eleva un canto in cui si autodefinisce l’ancella del Signore, o meglio ancora la schiava di Dio, una schiava che gli appartiene tutta e che non ha altra volontà che quella di lui. L’altruismo rappresenta la vera personalità. “Non vi era posto nella locanda”, perché la locanda era piena. C’era posto nella stalla, perché là non c’erano degli “ego”, ma solo un bue e un asino. Dio cercava nel mondo un cuore vuoto, ma non un cuore solitario, un cuore che fosse vuoto come un flauto col quale Lui potesse eseguire una melodia, non solitario come un abisso vuoto, che è pieno di morte. E il cuore più vuoto che poté trovare fu quello di una donna. E siccome questo non aveva personalità, Dio lo riempì della sua stessa personalità.
“D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata”. Sono parole miracolose. Come possiamo spiegarle se non con la divinità del figlio suo? Come poteva questa ragazza di campagna che veniva dal disprezzato villaggio di Nazareth e che le montagne della Giudea avvolgevano nell’anonimato, prevedere nelle generazioni future che artisti come Michelangelo e Raffaello, poeti come Sedulius, Cinevulfo, Jacopone da Todi, Dante, Chaucer e Wordsworth, teologi quali Efrem, Bonaventura e l’Aquinate, gente oscura di piccoli villaggi e dotti e grandi avrebbero versato le loro lodi in un’interminabile corrente, celebrandola come il primo amore del mondo… Il figlio suo darà più tardi la legge capace di spiegare il ricordo immortale che si ha di lei: “Chi si umilia sarà esaltato”. L’umiltà davanti a Dio viene ripagata con la gloria davanti agli uomini. Maria aveva fatto voto di verginità e, verosimilmente, escludeva così la possibilità che la sua bellezza fosse tramandata ad altre generazioni. Ed ecco che ora, per virtù di Dio, si vede madre di infinite generazioni, pur rimanendo vergine. Tutti quelli che avevano perduto il favore di Dio mangiando il frutto proibito, la esaltano, perché per mezzo suo rientrano in possesso dell’albero della vita. In tre mesi Maria ha avuto le sue otto beatitudini: “Beata sei tu perché piena di grazia”, aveva detto l’angelo Gabriele. “Beata perché concepirai nel tuo seno il Figlio dell’Altissimo, Dio Stesso”. “Beata sei tu, Vergine Madre, perché: lo Spirito Santo verrà in te e la virtù dell’Altissimo ti adombrerà.” “Beata sei tu perché fai la volontà di Dio: Si faccia di me secondo la tua parola”. “Beata sei tu perché hai creduto”, disse Elisabetta. “Beato il frutto del tuo grembo (Gesù)”, aggiunse Elisabetta. “Beata sei tu fra le donne”. “Beata sei tu perché si adempirà in te ciò che ti fu detto dal Signore”. Umiltà ed esaltazione furono un tutt’uno in lei: fu umile perché, giudicandosi indegna di divenire la madre del Signore, fece voto di verginità; venne esaltata perché Dio guardando a ciò che Maria credeva fosse il suo niente, ancora una volta creò un mondo dal “nulla”. Beatitudine è felicità. Maria possedeva tutto quanto può rendere veramente felice una persona. Perché per essere felici occorrono tre cose: possedere tutto quanto si desidera; averlo unito in una sola persona che si ama con tutto l’ardore della propria anima; sapere che lo si possiede senza peccare. Maria ebbe tutte e tre le cose. Se suo figlio non avesse voluto che sua madre fosse onorata là dove lui stesso è adorato, non avrebbe mai permesso che queste profetiche parole di lei si adempissero. (…)
“Di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato a mani vuote i ricchi. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre.”
Questo brano del Magnificat è il documento più rivoluzionario che sia stato mai scritto, mille volte più rivoluzionario di qualsiasi scritto di Karl Marx.
(Fulton J. Sheen, da “Maria Primo Amore del Mondo” edizioni Fede e Cultura)
L’ha ripubblicato su Per la maggior gloria di Dio.
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