
Uno sguardo alla Divinità ci fa convinti del peccato. Sotto gli occhi del Figlio di Dio, Pietro il rinnegatore divenne immediatamente Pietro il penitente. Quello sguardo con il quale solo la Divinità fruga nell’anima, segna l’inizio della responsabilità personale verso Dio.
Noi non pecchiamo soltanto contro concetti astratti o contro i Comandamenti: come persone, pecchiamo contro una Persona. L’enormità del peccato non si esaurisce nella violazione di un Comandamento, ma comporta una nuova Crocifissione del Cristo.
È per questo che, in sostanza, il dolore è in rapporto al Cristo Crocefisso, dove ciascuno di noi può leggervi la propria autobiografia.
Nella corona di spine vediamo il nostro orgoglio, nei chiodi la nostra lussuria e la nostra sensualità, nei piedi forati il nostro oblio per il Signore, nelle mani piagate la nostra avidità.
La penitenza è fatta per elevarci nella luce pura e infinita di Dio che metterà in fuga l’oscurità in cui ci dibattiamo. La differenza tra il peccatore e il santo sta nel fatto che uno persiste nel peccare, mentre l’altro piange amaramente.
Nel Vangelo, il vocabolo greco tradotto con «pianto» indica un dolore lungo, continuativo. Chi non ha tempo per piangere i propri peccati non ha neanche tempo per ravvedersi.
Il rimorso non portò Giuda a colpirsi il petto con un mea culpa, ma al suicidio. Non ebbe il cuore di pregare né di cercare il Volto di Dio per impetrare misericordia. Pietro, invece, soffrì. Egli era umiliato, non indurito. Quando le lacrime hanno lavato gli occhi, la visione spirituale diviene più chiara.
È per questo che le lacrime sono sovente associate a una vera comprensione del peccato. Negli occhi di Pietro, le lacrime furono l’arcobaleno della speranza dopo l’oscurità della tempesta. In esse rifulse in tutta la sua ampiezza la visione radiosa del clemente sguardo del Cristo.
(Fulton J. Sheen, da “Il Sacerdote non si appartiene” edizioni Fede e Cultura)