Questo mondo, Dio l’ha creato troppo piccolo per noi! I nostri desideri sono più grandi delle nostre realizzazioni. Abbiamo un oceano di desideri, ma solo una tazza con cui attingere all’immensa distesa. Sbattiamo ogni momento contro le mura dell’universo e ci scortichiamo gli stinchi contro le sue barriere. È questa la causa principale di qualsiasi turbamento e sofferenza. Noi siamo stati creati per l’Infinito!
La nostra anima è provvista di ali, che però urtano contro la gabbia del nostro corpo e contro la banalità delle nostre città…Se già, nella nostra anima, sentissimo il bisogno di amare quel Dio per Cui siamo stati creati, il dolore non sarebbe necessario.
Il dolore supplisce in un certo senso alle mancanze del nostro amore. Dal fatto di esserci bruciati le dita, noi impariamo spesso ad amare la legge che le dita non dovrebbero tenersi vicino al fuoco. Pur essendo stati creati per la Divinità, ci seppelliamo fra i ninnoli terreni come se fossimo stati creati per essi. Ci costruiamo il nido in terra, sperando di potervi trovare contentezza, e tuttavia sopraggiunge a incendiarlo, come un tizzone, il dolore. Man mano che i piaceri saziano, che i nostri corpi si nutrono di brividi, che gli amici ci trascurano, e che il potere ci rende inquieti, andiamo sempre più dicendo nell’intimo dei nostri cuori: “È dunque vero, o Signore, che tutto passa a eccezione di Te?”.
La missione del dolore non è soltanto di rammentarci che questa terra non è tutto, ma anche di aiutarci ad espiare i nostri peccati. Il dolore è posto vicino al male per aiutare la redenzione dell’anima. Sicché il dolore non è necessariamente sempre esterno, come una malattia o un accidente; può bensì essere, e così è il più delle volte, interno: uno stato di disagio, uno scontento, un rodersi della coscienza, un avvertire che qualcosa non va, un senso di vuoto e di solitudine. È quest’ultima specie di dolore che, oggi, risospinge verso Dio molti cuori, molte anime.
Niente un cuore agogna così tanto di placare, quanto una sete ardente. Fu con il pretesto di tale analogia che il Salvatore Gesù convertì la donna Samaritana al pozzo. Ella aveva già avuto cinque mariti, e l’uomo col quale viveva non era suo marito. E tuttavia era assetata di Amore. È anche interessante notare che ella è la prima persona, nella Sacra Scrittura, ad applicare a Lui il nome di “Salvatore del mondo”. E ciò perché Gesù l’aveva salvata dal vuoto e dalla sete. Questo genere di sete potrebbe esser chiamato angoscia, meglio che dolore.
Tutti soffrono di angoscia, perfino i giovani in mezzo ai loro piaceri. L’angoscia è, in un certo modo, connessa alla speranza, cioè a questo sentire che l’universo non è vano e che l’aspirazione dell’anima dovrebbe, in qualche parte, venir soddisfatta. Il pessimismo guarda al passato, che esso crede incapace di redimersi, ma l’angoscia guarda al futuro, con la speranza che il passato possa essere annullato. L’angoscia non nasce dalla debolezza, bensì dalla forza e dalla possibilità, così come il dolore nasce dalle limitazioni.
L’uomo moderno, invece di ridursi alla disperazione, può cominciare a sperare, perché nell’angoscia Dio sollecita l’anima a un Amore che trascende qualsiasi amore, e a una “Bellezza che trascende qualsiasi altra bellezza”. È peculiare di questo secolo, il quale ha accumulato più ricchezza e potenza di qualsiasi altro secolo, l’essere anche il secolo della massima angoscia.
Coloro che considerano questo vuoto come quello di una valle scoscesa cadono nella disperazione e nell’oscurità; ma quanti vedono in esso il vuoto di un flauto possono eseguire le melodie dell’Infinito e diventare felici con il canto.
(Beato Fulton J. Sheen, da “Pensieri per la vita di ogni giorno”.)